Addio Frank
Non sono mai riuscito a staccare l’esperienza fotografica di Robert Frank dall’immagine reminiscente che ogni volta, incontrando la sua fotografia, mi riportava alla “beat generation”.
Ecco che allora la sua visione del mondo mi richiamava quella del suo amico Jack Kerouac, “on the road”, e quella di poeti come Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Allen Ginsberg, Norman Mailer e William Burroughs.
Artisti accomunati nell’equivoco termine di “Beat generation” (di cui s’impossesserà il mondo musicale), che succedeva, peraltro, a quello di “gioventù bruciata”, e che, in Italia, Fernanda Pivano, poetessa e studiosa di letteratura americana, ci aveva fatto conoscere e amare.
Frank, nato in Europa, con origini ebree, naturalizzato americano, si accosta a questa generazione con gli occhi del visionario apparentemente freddo, disincantato, quasi cinico, ma, in effetti, stupito, interessato, coinvolto; e seguendo il percorso di Strand e di Evans fa sua quella volontà concreta, realistica di raccogliere il particolare, strutturarlo geograficamente e storicamente, e proporlo in termini di asciutta poesia.
A soli trentaquattro anni, dopo un serio tirocinio col grande Brodhovich, esplode nel mondo della fotografia regalandoci la pubblicazione (assai controversa editorialmente) del libro “Gli americani”, frutto di un lunghissimo vagabondare per gli States alla scoperta di una nazione che sta diventando la sua, di gente e luoghi che occorre decifrare e comprendere, di un tempo che troppo velocemente scorre davanti ai suoi occhi.
La fotografia si rivela lo strumento più adeguato a svolgere questo compito e, prendendo le distanze dalle pur notevoli formulazioni estetiche de “la famiglia dell’uomo” e dalla grande “photographie humaniste” europea, senza sconvolgimenti radicali di linguaggio (almeno a mio parere) propone la rappresentazione fotografica del suo incontro con la realtà statunitense.
Il libro sarà, e resterà, una novità assoluta per tutti i fotografi i quali rimangono perplessi davanti “all’attacco del suo stesso linguaggio laddove un vero e proprio processo di frantumazione delle regole condivise, fa scaturire fotografie sgranate, storte, senza centro, brutalmente tagliate, troppo oscure, troppo chiare” (Urs Stahel-Guadagnini).
Linguaggio e scelte tematiche vanno, peraltro, di pari passo, contribuendo a una visione sovvertitrice della sognante rappresentazione americana (eppure, identitariamente, ricorre sempre una bandiera a stelle e a strisce).
Inevitabilmente questo modo di intendere lo scatto, lo “snap”, l’istantanea, confligge con l’estetica bressoniana; entrambe sulla strada, entrambe rapide, entrambe desiderose di indagare il mondo attraverso l’individuazione di particolari rivelatori ma differenti nel modo di concepire l’istante.
Per H.C:B: l’istante è decisivo, e deve restituire la sua irripetibilità che ormai è divenuta impercettibile a occhio nudo.
Per Frank l’istante è, paradossalmente, privato della sua transitorietà e si estende nel passato e nel futuro: tanti, troppi, oggetti nelle sue fotografie che c’erano prima dello scatto e che ci saranno anche dopo, e che ti confidano che senza di loro, forse, qualcosa sarebbe diverso.
Quanto lontani appaiono, e quanto entrambi geniali, “Les europèens” di Cartier Bresson e “gli americani di Frank; e dire che entrambi sono legati da una certa “street photography”.
Penso che per ricordare la scomparsa del fotografo basti e avanzi il desiderio di ritornare sul suo libro più importante.
Tante volte son tornato sulle sue successive pubblicazioni e sui suoi numerosi film ma è stato come cercare qualcosa che avevo capito una volta soltanto e poi, basta più.
Come succede in gioventù.