ACAF - Associazione Catanese Amatori Fotografia

 
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Fotografia per guarire PDF Stampa E-mail
di Angelo Scozzarella

dottore.jpgDi fotografia si può vivere, ma anche morire. Ci si può ammalare, di fotografia, ma anche guarire.Fin dai primi risultati stabili raggiunti dalla nuova tecnologia, la clinica se n'è appropriata con grande entusiasmo. Non era più necessaria la presenza in vivo del corpo e non era più necessario attendere l'exitus per sottoporre ad indagine i sintomi. All'osservazione sistematica, depositata in protocolli osservativi asettici e descrittivi, era possibile sostituire la riproduzione visiva del fatto.
Ciò che accadeva in luoghi inaccessibili o si manifestava per tempi brevi, adesso veniva fissato per sempre, consentendone una riproduzione illimitata e una riconsiderazione ex post, che offriva alla comunità medico-scientifica occasioni per l'innanzi sconosciute.

Ma la fotografia delle manifestazioni patologiche non si proponeva soltanto come racconto più sintetico e realistico del protocollo verbale. L'immagine, infatti, portava con sé una pluralità di racconti e di osservazioni, che nessuna osservazione descrittiva avrebbe mai potuto contenere. Ciascun fruitore di quelle immagini avvertiva il privilegio di essere “primo spettatore” e al tempo stesso il maggiore agio di un contesto di lettura più oggettivo e distaccato. La fissazione, reificazione o eternalizzazione, dell'istante permetteva, inoltre, di cogliere ciò che sarebbe stato perduto nella fruizione contingente di una continuità temporale. E così Charcot fotografa le sue pazienti, dando inizio a quella invenzione dell'isteria, che ha profondamente segnato la nascita e lo sviluppo della moderna psicopatologia. Tuttavia, osservatori postumi di quelle immagini hanno potuto scorgere lo sguardo civettuolo della Marie di turno, che nel momento di maggiore tensione dell'arco spinale, nel corso di una crisi tonico-clonica, non presenta l'attesa retroversione del bulbo oculare, ma si dirige verso la fotocamera, consapevole di essere al centro della scena.Dell'uso documentale della fotografia in campo clinico, si può riscontrare una generica consapevolezza di massa. Meno noto, forse, è che la nostra passione si presti anche ad un uso terapeutico. Non parlo del percorso di sublimazione a cui noi fotoamatori asserviamo le nostre più oscure tendenze voyeuristiche, o l'impulso alla dominazione/colonizzazione del reale, o l'horror transit a cui reagiamo con l'immortalizzazione di ogni istante. No! Intendo un uso specificamente terapeutico della fotografia, all'interno di percorsi psicoterapici. Se in Italia la Fototerapia continua ad essere considerato un approccio marginale, nonostante il lodevole impegno della Scuola di Psicoterapia Integrata e di Edoardo Giusti, negli Stati Uniti già nel 1980 nasce una rivista dal titolo inequivocabile Phototherapy, seguita da numerose pubblicazioni sempre più specialistiche. Se poi ci si vuole spingere verso l'archeologia della fototerapia oltre alle esperienze, già citate, di Charcot si possono ricordare gli interessi di Moreno (padre dello psicodramma) e di Rogers (padre della psicologia umanistica), negli anni '40 del secolo scorso, volti a esplorare l'impatto terapeutico dei mezzi di comunicazione visiva. Oppure, ricordare il lavoro di Cornelison e Arsenian, che nella Boston degli anni '60, conducono uno studio su alcuni pazienti schizofrenici gravi, scattando loro delle Polaroid e mostrandogliele. I ricercatori osservarono reazioni emotive importanti e registrarono, anche, un miglioramento dei disturbi, soprattutto quelli connessi con la percezione del Sé.La Fototerapia è, pertanto, un approccio al disturbo psichico, che muove dalla consapevolezza che nella storia di vita di un soggetto si è creata una frattura, che rende difficile la percezione di Sé come soggetto narrativo. Le fotografie permettono di riappropriarsi della propria storia personale, ma anche di ricollocarsi nel presente.Nell'era del digitale è bene specificare che le immagini della Fototerapia sono le fotografie stampate. La cosa (res) fotografica è quella con cui si intrattiene un rapporto emozionale profondo. La fotografia da toccare, da stringere al petto, da baciare, su cui lacrimare, da portare con sé, da custodire gelosamente in un barattolo o in un album.Ricondurre codeste manifestazioni a banali epifenomeni di una relazione feticistica, ne farebbe sfuggire il senso. La Fototerapia attinge la sua specifica fonte di efficacia proprio da quel legame, che si istituisce tra soggetto fotografico e fotografia oggettivata. La fotografia ci si presenta come un'impronta. La luce che si riflette sul soggetto e si imprime sul supporto fotosensibile, porta con sé parte di quel soggetto, che poi riaffiora alla visibilità, anche in sua assenza.
Quanta diversità tra il ricordo verbale e quello sensoriale e in particolare visivo!
La risposta emozionale, che coglie davanti all'immagine fotografica cancella la distanza tra rappresentazione e realtà.  Si attiva così un flusso di risposte arcaiche, preverbali, capaci di modificare lo stesso ricordo e di riattivare vissuti interdetti.Magia della fotografia, che sfida ogni tentativo di razionalizzazione e non si lascia intimidire dalla minaccia nominalista, che vorrebbe recidere ogni legame tra segno fotografico e referente oggettuale extralinguistico. Ma ciò vale soltanto per la Fototerapia e per i legami personali con l'immagine fotografica. Perché la fotografia è disidentitaria e non si lascia costringere dentro una sola definizione o un solo uso.
 
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