ACAF - Associazione Catanese Amatori Fotografia

 
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di Pippo Pappalardo

dave_weekes.jpg Il recente concorso fotografico - promosso dall’egregio Attilio Lauria - per immagini realizzate attraverso la fotocamera contenuta in un iphone, ed eventualmente elaborate tramite i programmi dal medesimo gestiti, ci ha restituito un simpatico “carotaggio” sull’uso e sullo sfruttamento di tale strumento, sufficiente sia per qualche considerazione, ed intrigante per le prospettive che già s’intuiscono.
Mi ero tenuto lontano dall’argomento poiché ritenevo il fenomeno iphone circoscritto alla realizzazione d’immagini d’immediato consumo o di uso strumentale (la constatazione di un incidente, la trasmissione di un saluto più affettuoso, un appunto visivo a futura memoria, etc.); devo, invece, ricredermi poiché le immagini pervenute mi dicono che le medesime sono state pensate in maniera condizionata dallo strumento ed elaborate, anche in fase di ricerca e, quindi, anche di ripresa, in funzione delle risorse e delle possibilità del mezzo.

Mi sarei atteso, ad esempio, la sorpresa dell’antennista che salendo sugli edifici si accorge di nuovi panorami e si decide di conservarne l’immagine perché ha in tasca quanto necessario; oppure lo stupore di chi, raccogliendo qualcosa caduta accidentalmente sotto l’automobile, alza gli occhi e si accorge che tutta una vita si dispiega tra quattro ruote ed un tubo di scappamento e, avendo lo strumento, annota quel che il gommista non gli ha mai saputo raccontare. Ho anche immaginato un diario clinico-fotografico fatto di dettagli della propria gola infiammata ma opportunamente “telefonata” all’amico medico. L’immaginazione, però, ha dovuto fare i conti con la realtà che, a sua volta, fa i conti con la volontà di chi vuole fotografare ad ogni costo.
Tra questi comportamenti ci aveva orientato Italo Calvino che, descrivendo le manie fotografiche del protagonista di un suo racconto, considerava come non fosse possibile fotografare tutto ed, inoltre, come fosse assurdo fotografare sempre.
Nel momento in cui lo scriveva, il nostro scrittore sicuramente conosceva quanto analizzato da McLuhan, ma non conosceva l’iphone.
Intendiamoci, le valutazioni dello scrittore restano validissime ma quelle due ipotesi sono divenute possibili, sicché basta strutturare, di volta in volta, la nostra vena poetica, oppure organizzare la nostra finalità di ricerca, o sviluppare la nostra volontà di sorprendere ed essere sorpresi, o decidersi, una volta per sempre, di tendere continuamente agguati alla vita per non lasciarsi sorprendere dai capricci della stessa, ed ecco che un iphone, con le relative immagini catturate, modificate, adattate, camuffate, falsificate, è pronto per noi e per quanti vogliono far sedere il proprio occhio, il proprio cervello ed il proprio cuore attorno al tavolo delle risorse elettroniche.
Dice l’amico Berengo Gardin che questa non è più fotografia; e non perché manca del tutto quel “realismo fotografico” che abbiamo imparato a teorizzare cercando la sussistenza contemporanea tra il fotografo e quanto fotografato in termini di spazio, tempo, volontà di individuare l’icona e accoglierne l’impronta del reale; ma, semplicemente, perché non c’è più la consapevolezza, meglio ancora la coscienza, di quel tempo (e sottolineiamo tempo) che insieme al nostro occhio si dispiega per vedere l’immagine e trattenerla.
Eppure, molte di queste immagini rivelano una straordinaria attenzione al tempo, anzi rifiutano di inseguire il kronos e s’incantano nel kouros ovvero quel tempo privilegiato, giusto, appropriato per vivere il significato del momento esistenziale.
E, però, d’altra parte, le iphone-immagini annullano anche questo tempo privilegiato poiché sono nate per camminare, comunicare, confondersi e, così, cercarsi un nuovo autore, una nuova paternità (una nuova dimensione?).
In verità, in termini sociologici, il comportamento fotografico non è più quello studiato da Bourdieu o mostrato da Gilardi tutte le volte che ci hanno spinto a contare il numero di fotografie prodotte e riflettere sull’enormità di questo numero: adesso, addirittura, ci tocca contare anche l’enorme numero delle immagini distrutte.
Ed allora? Metteremo la voce iphone-fotografia dentro il “Dizionario dell’arte del nuovo secolo”, o la tratteremo come una voce accessoria, derivata, all’interno della storia della fotografia?
Rispondere alla domanda significa impegnarci, ancora una volta, nel dibattito intorno allo statuto ontologico della fotografia ed, inevitabilmente, cacciarci nell’eterno ginepraio della sua valenza artistica.
Con Jarvis Chase, fotografo, partiremo da un dato di fatto: “la migliore macchina fotografica è sicuramente quella che hai con te”, e che ci influenzerà sia se sarà una Leica che un cubo di legno con un foro stenopeico.
Sarà interessante, semmai, capire se questo condizionamento l’abbiamo in precedenza voluto ed accettato. In tal caso, abbiamo puntato sulle risorse dello strumento e sui suoi limiti. Ma, a questo punto, se abbiamo tenuto conto dei suoi limiti e delle sue risorse, vuol dire che, consapevolmente,  abbiamo in mano lo strumento con il quale effettivamente offrire in forma artistica il nostro pensiero.
Come farà, però, questa valenza artistica ad emergere dal contingente, dall’effimero, dal dejà vu, dal ripetivismo con cui dovrà convivere quest’obiettivo apparentemente senza tempi, senza fuoco, senza diaframmi, senza niente (quasi come i nostri occhi)?
Beh, le cose non stanno proprio così. Da Duchamp in poi, abbiamo invertito il percorso del giudizio visivo guardando intensamente l’ob iectum davanti a noi e, privilegiandolo fra i tanti, ne abbiamo cercato le ragioni estetiche condivisibili ancor prima di ogni personale tentativo di connotazione, innescando così una forza immaginativa di selezionata qualità. Forti di questa rivoluzionaria consapevolezza abbiamo dato “fiducia” ad ogni sguardo che, come nel presente concorso, si è materializzato in un iphone, prescindendo dalla fedeltà del risultato dello strumento rispetto alla realtà ripresa. Infatti, la maggiore definizione, lo sfocato calcolato al millesimo, l’armonia aurea tra i diversi piani di profondità, nella presente pratica, non intercettano più dei valori fondanti della visione: la medesima si sostiene piuttosto sulla possibilità di utilizzare il fotogramma per scenari nuovi, teorici e pratici, di cui con molta difficoltà  dobbiamo, se vogliamo, cogliere i confini. E, girando la pagina di questa esperienza, potrebbe coglierci la vertigine dentro la quale, come in un buco nero, tante nostre certezze, a cominciare da quelle estetiche, potrebbero dissolversi.
E torniamo da dove siamo partiti. Tra qualche anno mi regaleranno dei nuovi occhiali, magari del tipo sognato (ve lo ricordate?) dall’oculista di “Spoon River”. E gli occhiali saranno dotati di programmi elettronici in grado di selezionare ciò che vedo, e di conservarlo, ubbidienti ad un piccolo cenno delle mie palpebre.
Se nessun Ugo Mulas mi aiuterà a “verificare” quanto sto compiendo, dovrò rivolgermi a quella corrente di pensiero che, se ci penso, non è stata mai voluta bene? Quella, l’avrete capito, che si conclude sempre con un “ne vale la pena?”  Allora, come fa il nostro Attilio, meglio verificare. 

(La foto di questo articolo è di Dave Weekes)

 
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