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Il progetto secondo Saint Martin du Plan (1 in linea) (1) Visitatore
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Discussione: Il progetto secondo Saint Martin du Plan
#9081
PipPap (Utente)
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Il progetto secondo Saint Martin du Plan 9 Anni, 6 Mesi fa Karma: 9  
San Martin del Plan

In un “martedi” ormai passato, un caro amico mi confidava, sbuffando, che la semplice parola progetto, - un termine ed un’espressione, che pur, a lui medesimo, un tempo era stata tanto cara -, gli era divenuta “antipatica”; ancorquando ne riconosceva la necessità e l’utilità per la sua vita, per la sua professione ed il suo passatempo.
Ancora, sabato passato, eravamo in conferenza-convegno presso la Facoltà di Ingegneria (luogo quanto mai vocato per esaltare la bontà del “progetto”) e, insieme al ns. Presidente ed agli amici acaffini, non potevamo non lanciarci qualche sorriso ammiccante quando sentivamo quel termine, poiché sapevamo che quell’espressione, come un “fantasma”, aleggia, da qualche tempo, sui nostri discorsi, sui nostri lavori, sul nostro modo di intendere la fotografia.
Che sta succedendo? Cosa ci imbarazza?
E’ la parola “progetto” che cade in un contesto operativo errato e, pertanto, diffidiamo del suo significato, come dire, organizzativo oppure la utilizziamo a sproposito e, conseguentemente, creiamo squilibri e spiazzamenti all’interno di quel contesto che ritenevamo corretto?
Credo che ci sia il timore che dentro o dietro il “progetto” si nasconda la risorsa di coloro che sanno solo teorizzare e, quindi, vivono solo nell’esperienza progettuale fine a se stessa; oppure (sempre una mia supposizione) la paura è un’altra ed è quella di vedere svanire un approccio fotografico di tipo emotivo, seguace dell’istinto e del buon gusto e magari, poi, ma solo poi, disponibile per un editing più progettuale. Timori assurdi, dico io.

Ma mi fermo qui con le domande che ho, e mi sono, formulato: ce ne sarebbero tante e tutte pertinenti, ma desidero mettere “a fuoco” definizioni di concetti che siano possibilmente sintesi di precise esperienze; e, pertanto, passo alla riflessione sulle domande sopra esposte.
Non ricordo chi, forse Fia, qualche martedì fa, confidò con saggia e assoluta semplicità, che il suo atteggiamento fotografico non riposava necessariamente in un’ esperienza di tipo progettuale: la proposta contenuta nellle sue fotografie - ed il messaggio con esse connesso, aggiungo io -, procedeva da una provocazione emotiva, da una riflessione che era molto in debito col suo istinto, con l’istante vissuto, con la sorpresa condivisa e con la scoperta intuita.
Un attegggiamento chiarissimo e condivisibilissimo!!!
Allora, muovo da queste considerazioni per iniziare la mia riflessione con pacatezza e profondo desiderio di capire e condividere.
L’atteggiamento sopra descritto è un atteggiamento che amiamo, apprezziamo, addirittura cerchiamo perché è il frutto dell’addestramento continuo, del confronto con gli amici dell’immaginario, del dialogo costante con la realtà che vive accanto a noi come dentro di noi; è un atteggiamento che innerva dal di dentro tutta la storia della fotografia e, come tale, sta dentro allo scatto di ogni fotografo; è, consentitemelo, il volto romantico dell’avventura dello sguardo, quello che riconosce l’errore fotografico come figlio legittimo del proprio fotografare, che “chiama” il riflesso al banchetto dell’immagine, che riscontra “l’objet trouvé”, che dilata l’istante decisivo; quello che finisce per sconvogere ogni regola perché dietro la regola sta la consapevolezza del piacevole sconvolgimento provocato, perché dietro l’immagine sta solo un’altra immagine; perché è, paradossalmente, il progetto.

Tanto dichiarato - e con l’enfasi onesta praticata dalle persone che sanno guardarsi negli occhi - devo, per forza di cose, guardare anche al risultato di coloro che lavorano fotograficamente esprimendosi concatenando immagini, raccogliendo e legando frammenti di tempo, anzi, dando forma al tempo; e, ancor quando potrebbero risolvere tutto in una sola immagine felice, constatano che due immagini già fanno libro, fanno teatro, fanno discorso, sequenza, flusso emotivo che regolano, appunto, in virtù, e semplicemente, grazie ad un progetto.
semplicemente ( e conserviamoci, come un grande merito, l’inventata aggettivazione avverbiale “semplicemente”).

L’una delle due posizioni (schematicamente le chiamo così) non esclude l’altra: anche perché la progettazione non è meramente quella del tavolo di lavoro, del piano di studio, ma può benissimo essere quella macerata e maturata nella personale, unica, visione quotidiana come pure quella, tracciata a posteriori, sulla vendemmia fotografica, quindi, selezionata su ogni immagine raccolta come su ogni immagine eliminata; e può essere pure, quella che sboccia all’improvviso, non cercata, non voluta, quasi una serendipità (termine che trovo sia stato creato appositamente per il risultato fotografico), insomma non pre-vista, sorprendente, ma che ci soddisfa meglio del modo di intendere e giudicare un percorso fotografico.

Personalmente basterebbe fermarmi qui e accontentarmi di definire il mio busillis in termini materiali quanto esistenziali, rimandando la riflessione sul progetto al dialogo con i fotografi magari cercandolo, prevalentemente e concretamente, nel fotografare in sequenza, o nel fotografare per la confezione di un libro o di un audiovisivo, o nel fotografare che obbedisca ad una tipicizzazzione di tipo ideologico o strumentale.
Ma – e introduco un ma – se, da un lato, nelle Accademie la materia “Progettazione fotografica” sta prendendo il sopravvento, dall’altro, nelle facoltà di Lettere o di Scienze della Comunicazione, invece, si guarda alla qualità del fotografo, alla sua sensibilità, al suo occhio scopico e retinico, per farla breve, alla sua cultura; una ragione ci deve essere! Perché questa differenza nell’impostazione formativa e nella conoscenza storica della medesima esperienza fotografica?
Rispondo a questa rilevazione ricorrendo facilmente alla circostanza, sempre ricordata da President Cosimo, che, nella realtà, esistono tanti e diversi modi di utilizzare la fotografia: ci sono tanti usi e differenti sfruttamenti della fotografia e, quindi, i progetti che vi sottostanno (quando ci sono), sono tanti e diversi; e così le metodologie per svilupparli, e predisporli.
E quando non ci sono affatto, i risultati, a parità di modalità, sono davvero di tipo differente? hanno esiti e maturazioni diverse? e, per parlare di noi: ci guarderemo in cagnesco l’un l’altro, progettualisti e non progettualisti?
Ritorno sulle tracce dei miei amati maestri e concluderei così: individuata e tracciata l’idea base del gesto fotografico – documento,narrazione termatica, narrazione artistica, concettuale – occore coniugarla e declinarla con il “Perché” dello scatto. Sapremo così se abbiamo avuto bisogno di un progetto preliminare, o di una consapevolezza di tipo diverso o di qualcosa di altro ancora. E se quella progettazione sia stata utile o tempo perso.

Riconosco, in quest’ultimo passaggio, di non essere stato chiaro e provo a spiegarne il motivo: mi interessava, senza alcuna presunzione di riuscirci, portare la riflessione sul “progetto” ad un livello filosofico sicchè lo si potesse utilizzare come valore, come esperienza di vita quotidiana, di crescita, così come è avvenuto, almeno per me, con le solite domande “cosa, come e perché”. Quindi, salto a piè pari tutti i pro e i contro circa la necessità o meno di un progetto fotografico.
Meglio ancora, provo a cercarli ad un livello superiore, da tutti condivisibile e accettabile; e senza i timori di cui ho parlato all’inizio.
Muovo da una definizione di tipo dizionario (quella non può disturbare nessuno) e chiamo progetto lo studio preparatorio per realizzare un’opera o un’impresa; aggiungo altra definizione per completezza: chiamo progetto l’ideazione accompagnata con studi sulle modalità di attuazione ed esecuzione. Rammento che sinonimi di queste definizioni sono i concetti di “piano di lavoro” e quello di “programma”, e quindi ritengo accettabile chiamare progetto un insieme di disegni, calcoli, studi, pensieri, riflessioni preparatorie e finalizzate. Per estensione provo a definire progetto semplicemente ciò che si pensa di fare in futuro.
Cos’hanno in comune queste definizioni? Semplicemente, ed in generale, la possibile definizione di progetto come “anticipazione delle possibilità” cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione, piano, ordinamento, predeterminazione nonché il modo di essere e di agire che è proprio di chi fa ricorso a possibilità (v. qualunque dizionario filosofico).
Ma se sei fotografo, e sei consapevole di disporre di tante possibilità, allora sei cosciente di trovarti in una condizione di libertà e di autonomia assoluta e puoi variare la tua rappresentazione a secondo dell’itinerario che hai imboccato sapendo che altri ne hai escluso, e con ragione.
Mi rendo conto che nel mio ragionare c’è un evidente influsso del pensiero esistenzialista cristiano ma, a parte le personali convinzioni, ritengo valido il criterio di utilizzare “l’esperienza progetto” come valore in sé, come costante presenza su cui scambiare, incontrarsi, magari scambiando ed incontrando il mondo.
Progetto, quindi, non più come banale metodo o, peggio, come modello da seguire per procedere nell’esperienza fotografica ma come corollario che discende pari pari dalla consapevolezza che la vita, essa stessa, è un progetto, come pure la nostra visione creativa perché memoria ed affabulazione.

Sto scrivendo difficile? Magari privo di senso?
Cerco allora di semplificare: progettando si anticipano possibilità e si evitano sorprese ma si ritorna sempre su continue scelte possibili da effettuare (da qui la nostra responsabilità). Heidegger sintetizzando dichiarava: “Uomo, divieni allora ciò che sei”, riprendendo l'assolutismo nitchiano.
Ma un progetto fotografico non è proprio questa ricerca? E questa ricerca non è quella che troviamo in chi, emozionato da un volto, da un tramonto, da una ferita, la raccoglie con una istantanea e con un risultato cui prima non pensava minimamente e che ora, invece, lo fa sprofondare nelle più vaste meditazioni? “Uomo diventa ciò che sei: cioè immagine”.
Credo, personalmente, anzi MOLTO personalmente, di avere riannodato le fila e di avere ucciso il fantasma.

Invero, mi ero ripromesso di scrivere solo note critiche (?) e son finito per parlare ancora della nostra comune esperienza. Cercherò di non sgarrare in futuro anche perché son convinto di aver confuso le idee piuttosto che chiarirle.
MEGLIO PERO’ IDEE UN PO’ CONFUSE CHE DECISAMENTE TEMUTE: non possiamo continuare a diffidare delle parole dopo aver diffidato anche delle nostre immagini. (ma che bel progetto per una sequenza fotografica! e il gioco così ricomincia e l’avventura pure, e la poesia gli viene appresso, e i timori si allontanano, e……..)
 
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Ultima Modifica: 2014/11/24 09:10 Da PipPap.
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Il progetto secondo Saint Martin du Plan
PipPap 2014/11/10 19:15
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alb.o 2014/11/11 04:12
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fia 2014/11/11 12:02
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simone.sapienza 2014/11/12 02:11
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Caristofane 2014/11/12 12:30
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fia 2014/11/12 15:16
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alb.o 2014/11/12 19:07
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simone.sapienza 2014/11/12 15:05
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Old man 2014/11/13 00:31
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Gae84 2014/11/13 16:30
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cosimodiguardo 2014/11/18 09:02
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Gae84 2014/11/18 09:44
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Gae84 2014/11/18 09:50
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Barbera 2014/11/18 11:31
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Gae84 2014/11/18 13:42
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alb.o 2014/11/19 13:39
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Caristofane 2014/11/19 20:10
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alb.o 2014/11/28 17:01
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