Gabriele Croppi
New York
SIME Bo
Da troppe parti giunge la solita litania sulla presunta morte della fotografia.
In tanti, ancora, si affrettano al suo capezzale e le confidano, con un ultimo quanto cinico saluto, le ragioni medesime della sua scomparsa, diagnosticandole e riassumendole nella contagiosa e bulimica produzione d’immagni e nell’insistente sospetto sull’oggetttiva natura falsa delle stesse.
La fotografia, allora, sorride mestamente e pensa a quando era nata, a quando voleva liberare l’uomo dal ricorso all’artificio, e spingerlo sulla sua natura relazionale migliorandone il carattere comunicativo.
Qualcuno le offre il solito rimedio: la fotografia sarà salva se si contaminerà con la vicenda artistica e, quindi, sopravviverà solo se in mano agli artisti, solo se sarà un prodotto d’arte.
Un antidoto che sa di vecchi clichés culturali europei lontani un miglio, che in effetti sopravvivono ancora e che definiscono la nostra identità latina ed europea qualora la confrontiamo con quella americana o orientale.
Gabriele Croppi da tempo riesce a far dialogare il suo linguaggio fotografico non solo con il linguaggio delle arti visive in genere, ma anche con l’esperienza della parola scritta, e quindi della letteratura, e del suono.
Gìà nella passata’edizione del MedPhoto la sua rappresentazione delle città europee ci apparve non soltanto una visione ma, anche, una scrittura e, quindi, una proposta che pretendeva un’attenzione ed una lettura che passava attraverso matrici culturali ben precise ancorquando il segno fotografico da lui adoperato appariva liberato da ogni compiacimento formale, da ogni credito stilistico ed era ricondotto ad una asciuttezza interpretativa ai limiti dell’annichilimento: la precisa volontà di ridisegnare gli spazi ed i volumi plastici delle città attraverso un nero profondo che ne impediva una penetrazione descrittiva, spingeva inevitabilmente sui segni là dove veniva portata la luce, ormai libera e privilegiata, attivando così un invito alla lettura dialogante e stimolante; qualcuno parlò di De Chirico, altri di Sironi, in ogni caso di una matrice pittorica; l’autore conversando inciampò invece, incosciamente o meno, sui rivelanti nomi di Stieglitz e di Giacomelli.
Al sottoscritto apparvero come due valvole alle quali si chiedeva un credito di libertà: una libertà formale, contenutistica, dignitosamente ferma nella verità della visione anche se incompleta, nascosta, ambigua o, forse, proprio per questo.
Gabriele Croppi, torna ora a Catania. Durante l’anno passato sono stati conferiti alla sua opera riconoscimenti prestigiosi e straordinari. Ripartirà, poi, per New York per raccogliere alla Carnegie Hall altri premi ancora. Avevamo, quindi, visto giusto quando accanto a Nino Migliori proponemmo il suo “Metafisica del paesaggio urbano”.
Adesso ci presenterà al MedPhoto, Borghetto Europa, domenica 19 ottobre, il suo libro confezionato intorno ad immagini formulate su New York, città “super” per eccellenza, laddove ad ognuno sembra di aver fotografato tutto e di più. Ma, credetemi, le sue immagini sono forti e potenti, poichè il gesto fotografico è semplice, chiaro, risoluto, formalmente povero quanto concreto.
Il segreto sta nell’averlo connotato attraverso il suo pensiero visivo rivelatosi nell’inquadratura e nella volontà di utilizzare il nero (ombra, buio, mistero, sipario, nortte, morte) in funzione di disegno ulteriore oltre a quello regalatogli dalla luce.
Probabilmente il libro sarà proposto a prezzo promozionale ma in ogni caso lo presenteremo, io e l’autore, con maggiore piacere se saremo in tanti a discuterne insieme.
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