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"Spoon river", Fernanda Pivano e la fotografia (1 in linea) (1) Visitatore
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Discussione: "Spoon river", Fernanda Pivano e la fotografia
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"Spoon river", Fernanda Pivano e la fotografia 14 Anni, 8 Mesi fa Karma: 9  
In occasione della scomparsa di Fernanda Pivano

“Spoon River” in fotografia


Lessi per la prima volta di Spoon River, e degli epitaffi sulle sue tombe, nell’antologia della prima media.
Era una breve poesia che allora non supponevo collegata ad altre, e che studiai con l’attenzione del bambino che non ha conosciuto, o poteva conoscere appena, l’esperienza narrata.
“Babbo, non potrai mai sapere/quanta angoscia mi strinse il cuore/per la mia disubbidienza, quando sentii/la ruota spietata della locomotiva/mordermi nella carne viva della gamba/ etc….
Pochi versi, senza rima, con una interna musicalità che scaturiva dalla essenzialità di un linguaggio tutto proteso a comunicare l’emozione di un ricordo o di un'altra verità, quella magari vista dalla parte delle radici o da un’altra lontananza.
Negli anni successivi, rilessi e saccheggiai i versi di Lee Masters, grazie alla celebre traduzione di Fernanda Pivano, e, grazie, a lei mi accostai alla leggenda della letteratura americana.
La grande traduttrice, correlandosi con l’opera iniziale di Vittorini (ricordo l’edizione di “Americana”, Bompiani, 1949, con le fotografie di Evans e di Weston) ed, ancor più, di Pavese, ci fece conoscere Corso, Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac (quest’ultimo grande collaboratore di Frank).
Spoon River rimase, però, nella memoria e ritornava sempre: se usciva dalla pagina del libro, saliva sulla scena per divenire teatro, o musical, ed anche canzoni.
Ricordate “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” del compianto Fabrizio De Andrè? Anche la Pivano si compiacque della lettura del cantautore e, con lui, anche noi ritornammo a Spoon River per ritrovarci in compagnia di un giudice, di due innamorati, di un ateo, di un’adultera, di un avvocato e di tanti soldati che …. dormono, dormono sulla collina.
Quei versi ci dicevano come ciascuno di questi morti “portasse con sé qualcosa di indicibilmente suo, un tendere fuori del tempo, all’attimo estatico che realizzava la comune libertà ….. quasi che la morte, la fine del tempo, fosse l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne staccava uno con violenza, e lo saldava, inchiodandolo per sempre all’anima”.
Ho spesso avvertito, leggendo l’Antologia di Spoon River, qualcosa affine con l’esperienza fotografica. E non per il facile accostamento dell’epitaffio alla fotografia tombale quanto per quel punctum che nella buona fotografia non si vuole risolvere in quiete e che nella poesia di Masters riafferma con forza la voglia di vivere.
E così ho cercato tra i libri cosa è diventato Spoon River in fotografia.

Mi è venuto incontro il grande Mario Giacomelli che nel 1994, per Motta Editore, dà alle stampe un personalissimo “Omaggio a Spoon River”, prodotto durante gli anni 1973/1974.
Tra i tanti temi proposti nell’Antologia il fotografo di Senigallia sceglie il canto di Caroline Branson, probabilmente, tra tanti drammatici epitaffi, uno dei meno scoperti, decisamente meno esplicativo della vicenda terrena vissuta. Eppure, proprio per questo, ugualmente coinvolgente per i lampi, i bagliori emotivi che riesce a trasmettere.
Dice Roberto Sanesi che il fotografo non ha inteso descrivere la poesia ma si è posto decisamente dalla parte di colei che parla e agisce da tramite.
Ed infatti nelle immagini fotografiche inventate per Caroline, Giacomelli lascia sconosciuti i luoghi degli eventi accennati (pur drammaticamente indicati dal poeta) e, con uno straordinario gesto di regia visiva, raduna intorno “all’emozione di una soglia, il ricordo,” come spazio che i protagonisti della fotografia devono oltrepassare. E così alberi, gabbiani, baci, abbracci, bianchi e neri sembrano, “presi da nausea disperata e voluttuosa follia” e stringono anche loro “il patto mortale”.
Giacomelli insiste ancora: con i “suoi” panorami, i “suoi” richiami e le “sue” autocitazioni, fa proprio quel “possiamo conoscere la semente e il terreno, possiamo sentire la pioggia cadere, ma soltanto la sfera terrestre, soltanto il cielo conoscono il segreto del seme”.
Si dilata, pertanto, il significato iniziale del rimpianto di Caroline congiungendosi con la vastità dei rimandi delle immagini, con il patto di morte e con le nascite a venire. E Mario, invero, fa suo il grido di Caroline e ne accoglie il desiderio di essere gettata nel flusso vitale dalla quale si è voluta allontanare.

Tornò Fernanda Pivano, dopo tanti anni, a supportare un altro confronto con Spoon River ed è quello di William Willington autore di “Spoonriver, ciao” ed. Dreams Creek, 2006. La mostra fotografica relativa, curata da Roberto Mutti, in esposizione presso le librerie Feltrinelli, ebbe lusinghieri riscontri di critica e di interesse. Tutti a rinnovellare, infatti, il momento magico dell’incontro con questo libro, la sua storia, ed il desiderio di conoscere quanta verità sta dentro quelle tombe.
Ma quali tombe? E’ mai esistito Spoon River? C’è mai stato il suonatore Jones o l’ottico Dippold?
Ebbene, il nostro fotografo, innamoratosi dei versi e sulla scorta delle indicazioni dell’autore e degli studi esegetici condotti sull’opera, ha provato a penetrare in quel mondo fatto di un fiume giallastro, di casette bianche, di aceri, di torri per l’acqua, di bandiere e di croci. Ha provato a scavalcare le tracce di un museo di Spoon River e risalire sulla collina alla ricerca di qualcuno disposto a rispondere alle domande.
Ha fotografato la piccola città di Lewistown, con i suoi vezzi turistici e letterari e con il suo rinnovellare quel senso di vita comunitaria che nelle tombe di Masters si è espressa con momenti di umanità, buona e cattiva, di donne e di uomini presi dal vortice della vita.
Un bianconero straordinario, mesto e malinconico, contrassegna l’itinerario del fotografo che cerca di riprendere quel che ha letto più che quel che c’è ma che trova proprio in quel che c’è - circolarità della storia degli uomini - una risposta a quel che cercava.
Giustamente la saggia Pivano lo avverte. “Caro Willington, tu passi la tua vita ad ucciderti a forza di sognare”
Ah, questo Spoon River, con le sue vicende molto personali, forse un po’ patetiche, basate sulla nostalgia, che scompare e ricompare nella nostra vita!
Nostalgia son due parole: nostos ovvero ritorno ed algos cioè dolore. Il dolore del ritorno, la memoria quindi che fa soffrire. Come nella lettura di una vecchia fotografia!?



 
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