Bene, chiarito ogni possibile equivoco, mi corre l’obbligo anzi la necessità di spendere due parole sul mosso. Pensiero che rilancio tanto per chiarire quanto il discorso iniziato da Alberto sia stato per me stimolante.
Per me, formatomi, se me la passate, alla scuola di Cartier-Bresson e Scianna, la fotografia è essenzialmente documento e racconto di una realtà, testimonianza.
Non che non sapessi cosa fosse il mosso. Il mosso lo avevo incontrato la prima volta in Ernest Haas qualche annetto addietro, poi Capa e qualche altro, ma non l’avevo degnato di troppa attenzione o più probabilmente non lo avevo capito nelle sue piene potenzialità espressive. Anzi dico chiaramente che faccio parte di quei fotografanti che dicono: “peccato è venuta mossa!”. Che il mosso non è ancora entrato a pieno titolo nel mio bagaglio di strumenti espressivi, nonostante qualche recente timido tentativo. D’altro canto la tecnologia di oggi non ci spinge forse in quel senso? Se no perché tutti quei mille mila ISO o perché le moderne macchine partono da 200 ISO? Dove sono finiti i 100, dove i 50 ISO?
Ma poi ecco le prime foto mosse che si ripresentano in galleria e nei diaporami dell’ACAF, la mia mente torna a ricordi sopiti… il panning, il mosso, l’idea di movimento …
Ecco le foto di Salvo, poi quelle di Licio e Alberto … ma la mente è pigra, le apprezzo, ma non mi fermo a riflettere a sufficienza. Perché quel mosso è diverso? Perché suscita emozioni?
Poi la riflessione, un giro su internet, ed ecco esplodere un mondo diverso, fatto di immagini mosse, sfocate, pinhole, obiettivi degradati e macchine auto-costruite.
Perché in un mondo di perfezione tecnologica e, ancor più, estetica, si sente la necessità di un’immagine meno perfetta. Elogio dell’imperfezione, nostalgia del passato? Non credo, non basta. Forse si è stanchi di immagini troppo perfettamente uguali a se stesse, troppo già viste? Non è sufficiente ancora. Credo di capire che si voglia andare oltre la dimensione semplicemente descrittiva dell’immagine fotografica, credo che si voglia esplorare un universo più sottile, diafano direi, legato all’emozione, al sentimento, al sogno. Un mondo suggerito piuttosto che urlato.
Ci addentriamo in un campo difficile, fatto di sperimentazione e di risultati incerti, in cui il limite tra l’effetto ricercato e l’errore è sottilissimo, in cui il risultato non è sempre prevedibile con certezza, in cui due più due non sempre fa quattro.
Questo perché al di la dell’incerta riuscita tecnica della fotografia in questione, il linguaggio di queste immagini è diverso dal normale. Esso è rivolto più alla sfera emotivo-psicologia che a quella sensoriale, non è importante ciò che vediamo, ma ciò che proviamo. E qui ovviamente il discorso si fa assolutamente più complesso per le mille sfaccettature che la sfera emotiva soggettiva offre e impone. E’ ovvio che di fronte a determinati stimoli le reazioni emotive possono essere molto diverse da un individuo all’altro e non mi voglio addentrare troppo in un campo indubbiamente affascinante, ma che va oltre le mie competenze. Quindi esprimersi per emozioni può riuscire oltremodo complesso ed estremamente soggettivo.
C’è un altro “ma” che si impone nella questione ed è quello della sfera comunicativa, anche questa soggettiva in quanto troppo spesso dipendente dalla cultura e sensibilità del lettore oltre che del’autore. Mi spiego. Non so a voi, ma a me è certamente successo di recarmi in un museo d’arte moderna e, pur non essendo certamente il meno “recettivo” del gruppo, trovarmi spiazzato di fronte alla domanda, ma che diavolo significa questa “cosa”? che cosa mi dovrebbe rappresentare? Certo in quel caso c’è una sorta di paracadute che mi è dato dal fatto che l’opera si trova “li” (in un santuario deputato alla valorizzazione dell’oggetto artistico) e quindi qualcuno più sensibile e competente di me ce l’ha messa, così, supportato da questa certezza, è più facile barare e giù discorsi nel cercare di giustificare la libertà dell’artista, la sua possibilità di esprimersi oltre i canali convenzionali e via di questo passo. Ma cosa succede se quell’opera la troviamo in un altro contesto. Quale sarà la nostra reazione? Ci fermeremo a sufficienza a valutare il suo significato o la liquideremo con sentenza definitiva e inappellabile? E poi fino a che punto è libero l’artista, fino a che punto ci si può spingere prima di divenire incomprensibili ai più e quindi perdere quella capacità di comunicare che l’arte (e la fotografia) ci offre? E’ lecito spingersi tanto oltre? E’ altrettanto lecito limitare un artista/autore con la nostra pochezza di spirito e di cultura? Dove potremo porre l’ago della bilancia per una corretta lettura.
Forse mi sono un po’ allargato, partendo da un mosso creativo, la carne al fuoco non basta mai e ieri ce ne siamo resi conto … ma questa è un’altra storia.
Ecco ho lanciato il sasso (e non nascondo la mano!), ma considerato che più che un colto sono un curioso-riflessivo, faccio appello a Pippo, Licio, Salvo, Alberto, Cosimo (che dell’immagine emotiva è stato paladino anche se con altra tecnica) e, ne dimentico sicuramente tanti, tutti gli altri che si trovano disponibili, che hanno competenza e volontà, senza timore di lasciare un proprio pensiero, affinché
inizi una discussione fra amici (come giustamente diceva Alberto) che non si spenga in due battute (anzi direi che ce n’è a sufficienza per un altro seminario).
Se no spero almeno di aver stimolato qualche altro curioso-riflessivo perché affronti per suo conto queste perplessità.
Vorrà dire che il mio sasso, non raccolto, sprofonderà nello stagno e finirà col divenire invisibile … a tutti.
Con il mio solito augurio di buona luce … pensateci su!
Emanuele
Foto degradata pubblicata a titolo didattico
Impasse di Susan Burnstine