di Licio La Rocca
Un bagno d’umiltà. Ecco quello che mi accadde qualche mese fa. Mi ritrovai, casualmente, a nuotare nel fiume dei valori.
Io, tutto preso dal vortice della vita quotidiana, fatta di rancori, invidie, litigi, lotte per futili motivi,
contrasti per interessi, inaspettatamente fui spinto, tutto vestito, in acqua. Dapprima annaspai, poi pian piano
trovai il tempo della giusta bracciata.Nuotai, controcorrente, osservando le sponde del fiume.
Fui attratto da una macchia rossa. Mi spostai in quella direzione. Uscii dall’acqua. Riconobbi un Vigile del Fuoco.
Già un Vigile. Solo pochi giorni prima eravamo usciti, saltando di gioia, dalla stanza del Comandante.
Eravamo riusciti a convincerlo a darci l’autorizzazione a svolgere un “lavoro fotografico” su di loro.
Tutti gasati iniziammo a scattare. Ci assegnammo perfino dei turni “di servizio” per riuscire a coprire il maggior
numero di giorni. Lavoro entusiasmante, affascinante. Corse a sirene spiegate, aperture porte, soccorso a persone,
incendi. Tutto bello. Tutto troppo bello.
Poi improvviso calò l’angelo della morte. Risuonò l’allarme. Tutti partirono per Giampilieri e Scaletta Zanclea.
Li seguii.
Mi investì l’odore acre della paura, il sapore salato delle lacrime, l’assordante silenzio della disperazione.
Le scarpe mi affondarono nel fango. Attorno a me solo distruzione. Mi sentii tirato per i capelli dalla mano dei
ricordi. Allora, giovanissimo militare di leva, fui inviato negli scenari del terremoto dell’Irpinia.
Stesse immagini. Morte e distruzione. Ricaddi nel fango peloritano tra un nugolo, organizzato ed efficiente,
di Vigili del Fuoco. Mi ricordai di essere un fotografo. Iniziai a scattare. Con rispetto. Li vidi sollevare a
braccia enormi massi, nuotare nel fango, oppure in totale silenzio ascoltare ogni minimo rumore.
Li vidi darsi il cambio, ogni 10 minuti, per ore a scavare in spazi ridottissimi. Io insieme a loro.
Con la mia macchina fotografica.
Porsi una mano, un Vigile l’afferrò e lo aiutai a salire. Ci guardammo. Mi dette una pacca sulla spalla sinistra.
Poi l’odore acre della morte.
Una mano. Poi il braccio. Dopo tre ore fu estratto il corpo, con estremo rispetto.
L’ anima, che per giorni attese sospesa a mezz’aria, poté rimpossessarsi del corpo e, finalmente,
riposare in pace. Continuarono a scavare fino a sera. Dopo arrivò il cambio e altri Vigili proseguirono.
Ci ritirammo al campo base esausti, mangiammo in silenzio. Come zombie ci buttammo sulle brande. Nessuno parlò.
Non ebbi la forza di guardare gli scatti. Poco dopo mi ritrovai sulla riva del fiume. Mi tuffai e nuotai a favore
di corrente. Mai come allora quelle acque furono tanto chiare, fresche e dolci per me. Mi riportarono alla ragione.
Ampie e comode bracciate mi accompagnarono. Uscii dal fiume e tutto bagnato andai a casa. Scoprii che avevo perso
quella scorza di indifferenza, cinismo ed egoismo. Oggi gioisco di fronte ad un sorriso, un abbraccio. Mi emoziono
davanti a un segno di solidarietà. Mi entusiasmo dinanzi alla felicità. Piango al cospetto della sofferenza.
La vita è talmente forte da sconfiggere la morte ma, altrettanto delicata, da essere spazzata via da alcune,
innocenti, gocce di pioggia.
Ora sono, forse, un altro uomo grazie alla fotografia. E’ una cosa talmente assurda ma dannatamente vera.
Oggi, dopo tanto tempo, conservo nel mio cuore l’acqua di quel fiume.
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