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Biologia di uno scatto PDF Stampa E-mail

di Marinella Cocostecris.jpg

Occhio fisso sul mirino della reflex, dito indice pronto a premere sul tasto di scatto, respiro quasi assente, come un atleta sui blocchi di partenza, è così che scoviamo un fotografo durante la ricerca del suo scatto.
Ma come si ottiene una bella immagine?. Una di quelle foto che riesce ad essere universalmente apprezzata, bella, suggestiva, piena di emozioni, tale da essere considerata a pieno titolo e di diritto come un’opera d’arte. È tutto merito dell’occhio del fotografo, attento e vigile o soggiacciono dietro complessi ed elaborati circuiti celebrali?
Recenti studi scientifici stanno iniziando a dare le prime risposte a questi interrogativi. Semir Zeki, massimo esperto nel mondo scientifico per il suo impegno nello studio dei rapporti esistenti fra arte e cervello, fondatore del termine “neuroestetica”, fornisce in uno dei suoi scritti, “Inner Vision - La visione dall’interno”, alcune spiegazioni per chiarire l’esistenza di una base biologica nella creazione di una qualsiasi forma d’arte, ed in particolare puntualizza il ruolo svolto dal “cervello”.  Secondo Zeki l’arte è un prodotto del cervello, cioè è un’interpretazione “biologica” della realtà, un’elaborazione da parte del nostro sistema nervoso sia delle forme che dei contenuti. 
Sembrerebbe che nel momento della scelta di un taglio fotografico, di uno scatto, la neocorteccia   -zona più evoluta del cervello umano- sia coinvolta solo marginalmente, mentre il lobo limbico -una zona del cervello deputata alle emozioni- assuma il ruolo principale.
Se la creazione dell’immagine è frutto di un processo celebrale, l’emozione che genera la sua visione in un osservatore da cosa dipende?
Guardare una foto può suscitare in un individuo: ricordi, sogni, a volte addirittura riesce a portarlo sottobraccio in realtà parallele conducendolo in universi fantastici.
Recenti ricerche hanno dimostrato che esistono varie aree che si attivano in modo analogo in tutti gli esseri umani quando sono posti di fronte al medesimo oggetto. Questa osservazione ci pone di fronte alla visione di immagini, più o meno, tutti sullo stesso piano interpretativo. Con ciò potrebbe essere spiegata la possibilità di riuscire a comunicare impressioni ed emozioni profonde ad un vasto numero di persone.
Un ultimo punto che accomuna sia la realizzazione che la fruizione dell’immagine è data dal movimento della figura umana rappresentata. L’importanza del movimento della figura umana o della possibilità di afferrare la natura morta ritratta, costituisce un elemento indispensabile per entrare in empatia con il soggetto. Lo avevano già intuito gli artisti del 400, Leon Battista Alberti soleva dire che: “un’opera d’arte è in grado di smuovere i sentimenti dell’osservatore solo se i personaggi in essa raffigurati mostrano chiaramente i propri moti dell’animo, e se questi ultimi sono riconoscibili dal movimento dei corpi. Perché chi osserva entra inevitabilmente in empatia con ciò che sta osservando”.
L’empatia, infatti, non può essere considerata solo come una caratteristica esclusivamente “intellettuale” ma utilizza come canale preferenziale il corpo.
Quando si osserva una foto ognuno di noi, percepisce fisicamente ciò che vi è rappresentato e riproduce, inconsapevolmente e in modo impercettibile all’occhio umano, il gesto osservato, identificandosi con esso. Possiamo, quindi, affermare, che guardiamo con il corpo.
Una grande foto si fa allineando mente, occhio e cuore asseriva H.C. Bresson.
La realizzazione di uno scatto dipende dalla sinergia di occhio, cervello, empatia e movimento; “le immagini come afferma A. Oliveri, neuroscienziato italiano, sono chiavi,  capaci per puro caso di aprire certe serrature biologiche o psicologiche, altrimenti sono falsi gettoni, capaci tuttavia di far funzionare il meccanismo”.
… ma allora, il clic che da vita all’immagine è frutto di un vero connubio fra arte e scienza.
 
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