di Pippo Pappalardo
Per quanto tempo ancora parleremo dell’Etna? Personalmente non porrei dei limiti.
I pretesti (anche fotografici) non mancano, sia in termini oggettivi di paesaggio e, quindi, di territorio e d’ambiente, sia in termini genericamente esistenziali ovvero di storia delle genti che vi hanno abitato e vissuto, sia in termini di metafora o di simbolo e, pertanto, in chiave squisitamente allegorica.
Mi piace, però, per questa nota, procedere dall’esperienza personale e,
quindi, dall’intimo approccio vissuto con “a muntagna”. Ed ecco, già
nella lingua e nel nome, svelarsi il primo rapporto e la sua radice: per
il sottoscritto, l’Etna non fu, dapprima, il vulcano, ma, raccolta
dalle labbra dei propri genitori, essa fu a “a montagna” per eccellenza
ovvero una meta difficile da raggiungere, per molta gente in gran parte
sconosciuta, coperta di neve e alquanto pericolosa.
E tale rimase per tutta l’infanzia, allorquando la sua visibile
consistenza, facilmente osservabile per un catanese come me, rimase
soprattutto lo sfondo dei tanti percorsi cittadini.
Lei mi si rivelò nella sua presenza e bellezza quando un giorno,
allontanatomi in barca con mio padre, ebbi modo di afferrarne le
dimensioni ed, in particolar modo, il suo legame con il cielo e con
l’umanità che l’abitava: io sulla barca nel mare, lei protesa verso il
cielo; io lontano dal rumore degli uomini, lei dentro, connaturata con
la loro umanità. Da quel momento mi fu facile lasciare la visione che
per tanto tempo mi aveva soggiogato ovvero la stretta prospettiva
fornitami dall’angolo tra via Umberto e via Carnazza dove, lei, mi
appariva più grande per il contrastato profilo dei palazzi, ed
ingentilita dalle architetture della Villa Manganelli.
Ma ormai non ero un bambino. E volevo “vederla” tutta. Così ho
cominciato a fotografarla, lei ed i suoi abitanti, lei e la sua
vegetazione, lei ed i suoi animali, lei e suoi capricci, lei e le sue
favole ed i suoi incantamenti. Qualche sera, in uno dei nostri incontri,
vi parlerò dei tanti cavalieri e delle tante dame dell’immaginario che
l’hanno a lungo guardata, a volte innamorati, a volte intimoriti, ma
sempre soggiogati.
E vi svelerò una bella storia, fatta di fotografie intrise di vita e di
morte. Eppure, dopo tanto guardare, e vedere, io rimango ancora fedele,
e continuamente ritorno, a quell’angolo, a quello spicchio della “mia
montagna” che ogni giorno si è presentata puntuale all’appuntamento con i
miei occhi quasi a sottolinearmi che la giornata non era buona per
capire le cose del mondo, od era ancora bella per andare a zonzo col mio
amore, o che la coperta di neve era lì per parlarmi di un’altra
stagione passata, o che la cenere e il fuoco erano i suoi moniti per
ricordarmi che dovevo “rivedere” la mia poesia.
Passo ancora da quell’incrocio ed alzo ancora gli occhi, e mi accorgo che dovrei portare gli occhiali.
Ma nel constatare ancora tanta bellezza (che forse è la mia?) non voglio ammetterle che sono invecchiato.
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