Il sapore della festa |
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di Pippo Pappalardo
Non abbiamo ancora messo a riposo i segni del passato Natale, non abbiamo neanche smaltito l’appesantimento fisico del festeggiato anno nuovo, e già i nostri sensi sono nuovamente provocati, sollecitati e richiamati attraverso gli occhi, il naso e, soprattutto, attraverso, il palato.
Il nostro Presidente, sempre attento a offrirci nuove palestre dove
praticare il nostro esercizio preferito, stavolta ha pensato di farci
ritornare sulla festa di Sant’Agata e così, dalla documentazione degli
aspetti gastronomici in essa vissuti, iniziare un racconto tematico
della ricorrenza supportato da questo elemento. E allora? Il “progetto”, allora, forse, si può delineare: attraverso calia e simenza, attraverso olivette e torrone, minni di virgini e gelati di campagna, arancine e sfingioni, bianco mangiare e pane di Napoli, ritorniamo al senso dell’attesa e del compimento della festa, di quando si completava e si chiudeva un pranzo nel nome di Sant’Agata, di quando le famiglie si affacciavano al balcone alzandosi da tavola per vedere la Santa, di quando i devoti si rifocillavano nei due giorni di processione attingendo alla ristorazione da strada che, a Catania, continua ad essere fantasiosa e spettacolare. Voi direte: ”I dolci e la famiglia, va bene; ma come collegarli alla città?” Pensate, allora, che tutto quello che ho citato si fa per “strada”; altro, ancora, è esposto nelle vetrine; è esibito dappertutto. E se volete proprio contestualizzare: le olivette andranno a fare la rima all’olivastro davanti al Santo Carcere, il torrone al ritmo del bianco nero dei nostri palazzi e delle nostre strade, la mandorla con gli accenni di primavera; le “minne”, poi, con tutto ciò che riguarda Sant’Agata: e non saranno i sacchi devozionali a mortificare i corpi delle nostre concittadine e, per una volta tanto, penseremo che da quella fonte abbiamo bevuto un po’ tutti. Dovremmo, quindi, fotografare in trasparenza, in duplicazione, per far vedere la fede e la festa, per far capire la storia e rivivere il rito. Dobbiamo tornare bambini e trovare tra noi leggere parole nel frastuono della moschetteria e nel riverbero delle candele degli adulti. E qui vi lascio: non prima di aver ricordato a voi e a me stesso due piccoli episodi legati alla gastronomia della festa ed ai suoi sensi più, come dire, pagani. Il primo è legato all’abitudine di rafforzare le ugole dei devoti inneggianti con mangiate di acciughe salate accompagnate da bevute di seltz e limone; il secondo è un ricordo più personale, in qualche modo più intimo e legato ai miei primi turbamenti. Una cugina più grande, cui facevo visita durante il giro processionale, aveva l’abitudine, prima di congedarmi, di frugare sotto il sacco che indossavo e riempire le tasche dei miei pantaloni con tanta buona calia e nucidda americana. E ne stipava assai. Anno dopo i anno, io gradivo quel gesto di allegria e di abbondanza. Poi, un anno, tutto finì: ai miei occhi imploranti rispose che s’era accorta che ero diventato grande. La lacrime, di allora, e di adesso, hanno un sapore, come dire, agatino? |
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