Il ritratto |
di Emanuele Canino
In tempi passati la riproduzione del proprio volto era un privilegio riservato a pochi eletti. Dapprima in forma scultorea, poi in forma pittorica, il ritratto era comunque elemento interpretativo puro dell'autore e si confaceva, spesso in modo ossequioso, alle richieste del committente, modificandone "l'interpretazione", per così dire, in base al concetto che si voleva dare del soggetto ritratto. Destinato ad essere ostentato quale simbolo della propria condizione sociale ed economica, eseguito su commissione, vero-simile ma non uguale, era comunque un'astrazione dal reale. Verosimile ma non uguale. L’invenzione della fotografia ha cambiato i rapporti dell’uomo con la propria imagine. La fotografia, infatti, proprio per le sue caratteristiche intrinseche di fedeltà nella riproduzione del vero e di relativa economicità, ha mutato profondamente il modo di intendere il ritratto ed il rapporto del soggetto con lo stesso.Riporto questa frase di anonimo che esprime molto bene uno dei possibili
disaggi del fotografato: "C'è forse qualcosa di più brutto di una
brutta fotografia? In una brutta fotografia tu sai di non essere tu, non
ti ci riconosci, ma qualcuno ha ritenuto di vederti in quel modo, e ti
ha fatto diventare così come vi appari." Passando ad altro aspetto, la fotografia, intesa come ritratto, è stata paragonata ad una micro-esperienza della morte. Il soggetto diventa oggetto, privo di palpito vitale e di volontà propria, sottoposto alla volontà ed alle manipolazioni di altri. Una parte di me stesso si stacca da me per divenire proprietà di altri. Non per niente è diffusa la credenza, presso alcuni popoli, che la fotografia ti rubi l'anima. E te la ruba veramente infatti, almeno nel senso di esporre il fotografato, denudato da schermi protettivi, allo sguardo del pubblico, se il fotografo è stato abbastanza bravo da riuscire in una analisi psicologica del soggetto (o abbastanza cattivo, dipende). Il ritratto come indagine psicanalitica dunque, ma anche come espressione fenomenologia di ciò che si è stato quando non si è più. Quale ricordo tangibile ci rimane di un parente o amico deceduto se non il suo ritratto? Cosa viene esposto sulla tomba, oltre al nome e alle date, quale elemento più caratterizzante, quale prova migliore della trascorsa esistenza, se non un ritratto. Il ritratto dunque come vita, o testimonianza di vita, dopo la morte e come morte durante l'esistenza in vita. Ma il ritratto è qualcosa di ancora più complesso. Proprio per la capacità fedele della fotografia di riprodurre il reale, esiste spesso una totale identificazione tra il soggetto ritratto e la sua fotografia, per questo motivo chiunque sentirà di non aver avuto giustizia in un ritratto vi chiederà immediatamente di distruggerlo o quanto meno di non esporlo. Al contrario di quanto si crede comunemente la fotografia non è per niente oggettiva, ma assolutamente soggettiva, esprime il punto di vista del fotografo, appunto. Fotografare qualcuno mentre fa una smorfia o in un particolare momento lo può rendere non solo brutto, ma peggio ancora ridicolo. O comunque darne una visione diversa da quella comunemente accettata dal soggetto stesso. Da qui la fotografia satirica o peggio denigratoria. In questi casi il soggetto viene posto in una strana condizione di sdoppiamento della propria identità. Quello del ritratto è lui, ma non è lui. E' lui perché i tratti somatici sono perfettamente riconoscibili nell'immagine, ma egli non lo riconosce come se stesso, quella smorfia, quella faccia brutta o ridicola o stupida o ebete non è e non può essere la sua. Non è un caso che grandi fotografi, anche ritrattisti, si opposero fermamente ad essere ritratti nel corso della vita. Al giorno d'oggi, quando essere ed apparire si fondono e si confondono, questi concetti appaiono ancora più pressanti. Provate, ad esempio a ritrarre una donna, o anche un uomo, mettendo in evidenza, o addirittura esasperando, uno o più difetti fisici o segni del tempo. Osservate la loro reazione quando vedranno tali immagini. Potranno andare da una sensazione di disagio, ad incredulità, a rabbia, offesa, ira, ferocia, aggressività via via sfumando attraverso una infinita digressione. (Attenzione perchè si potrebbe manifestare anche fisicamente!). Al tempo stesso, però, il ritratto è la conferma o l'affermazione del proprio essere o essere stato. Ecco perché le migliaia o milioni o forse meglio miliardi di foto-ricordo. Io ero-sono stato-sono. Io sono così o almeno lo ero. "Anch'io sono stato giovane e bello". Io sono stato. Io ti mostro-dimostro, attraverso la fotografia, che sono stato li ed ho visto (ad esempio nel caso di un viaggio). Io e tu, lui, l'altro siamo stati felici, infelici, insieme, etc. Ad esasperare questa necessità oggi si pongono fenomeni come Facebook o similari, nei quali la fotografia-testimonianza diventa prova del reale, quasi che senza quella dimostrazione tu non sia esistito o comparso (che oggi è la stessa cosa) in quell'evento. Se non avessimo le foto di un amico o parente defunto o lontano, nel tempo potremmo finire col dimenticare il suo volto. Immaginate quale sofferenza (e quale terribile senso di colpa) non riuscire più a richiamare alla memoria il volto di una madre o di un padre o di un figlio. Non poter più richiamare alla mente le sensazioni correlate a quella amata presenza. Oppure immaginate per un attimo di perdere improvvisamente tutte le vostre foto (e non parlo qui di quelle fatte come espressione artistica, ma di infanzia, gioventù, amori, amici, maturità, figli, avvenimenti importanti): quale terribile perdita. Non è solo il ricordo, ma l'affermazione di tutta un'esistenza che viene ad essere perduta (occhio perchè con i supporti digitali non è un'ipotesi tanto campata in aria). Infine immaginate un bel ritratto di voi stessi, quello in cui apparite nel vostro splendore fisico, intellettuale, psicologico e affettivo. Non è forse il ritratto che tutti vorremmo avere fatto, nel fondo del nostro ego? La conferma di noi quali noi ci sentiamo da dentro e vorremmo apparire/essere riconosciuti dagli altri. Il foto-ritratto è in fondo l'espressione del conflitto profondo tra il se sentito e ciò che appare. Col mezzo fotografico maggiormente che con altri si evidenzia il conflitto più profondo del dualismo essere/apparire. "Davanti all'obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede che io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte" così Roland Barthes. Ma sono anche la paura di ciò che si vedrà in quella fotografia, il confronto tra come mi vedo e come mi vedono gli altri, il timore di come il fotografo mi farà apparire. Già, il fotografo. Qual'è il suo ruolo in tutto questo tramestio psicologico del soggetto fotografato? Deve certo mettere quest'ultimo a suo agio, deve dar prova della sua arte, deve saper interpretare la psicologia del soggetto, fare un'analisi psicologica e trasferirla nell'immagine, deve soprattutto avere la pazienza, il tempo, la volontà di andare oltre uno scatto e via. Deve cercare di parlare, capire, immaginare, valutare... Bello a questo proposito un passaggio di HBC, in cui narra il suo modo di fare un ritratto: “Più di tutto,io cerco un silenzio interiore. Cerco di tradurre la personalità e non una sua sola espressione…Se realizzando un ritratto, speriamo di cogliere il silenzio interiore di una vittima consenziente, è molto difficile introdurle tra la camicia e la pelle un apparecchio fotografico”. Parole di un maestro. |
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