di Pippo Pappalardo
Egregio Signore,
la vostra lettera mi ha raggiunto solo qualche giorno fa. Voglio ringraziarvi per la sua grande e cara fiducia. Poco più posso. Non posso entrare e diffondermi sulla natura delle vostre fotografie; ché ogni intenzione critica è troppo remota da me.Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico:si arriva per quella via a sempre più o meno felici malintesi.Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere;la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutte sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.
Premesso questo punto, vi posso ancora soltanto dire che le vostre fotografie non hanno un loro proprio stile, ma sommessi e coperti avvii a un accento personale. Più chiaro che altrove l’avverto nell’ultima fotografia “la mia anima”. Ivi qualcosa di proprio vuol giungere ad una sua espressione. E nella bella fotografia “a Leopardi” cresce forse una sorta di affinità con quel grande solitario. Tuttavia non sono ancora le vostre fotografie cose per sé, indipendenti, neppure l’ultima né quella al Leopardi. La vostra benevola lettera, che le ha accompagnate, non manca di chiarirmi qualche difetto, ch’io ho sentito guardando le vostre fotografie, senza tuttavia poterlo designare per nome.
Voi domandate se le vostre fotografie siano buone. Lo domandate a me. L’avete prima domandato ad altri. Le spedite a riviste. Le paragonate con altre fotografie e v’inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi. Ora (poiché voi mi avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo. Voi guardate fuori, verso l’esterno e questo soprattutto voi non dovreste ora fare. Nessuno vi può consigliare ed aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrare in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a fotografare; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di fotografare. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora silenziosa della vostra notte: “devo” io fotografare? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice “debbo”, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità. La vostra vita fin dentro la sua più indifferente e minima ora deve farsi segno e testimonio di questo impulso. Poi avvicinatevi alla natura. Tentate come un primo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete. Non fotografate volti e paesaggi, evitate all’inizio le forme troppo correnti e abituali: sono esse le più difficili, perché occorre una grande e già matura forza a dar qualcosa di proprio dove si offrono in gran numero buone tradizioni, anzi splendide in parte. Perciò salvatevi dai motivi generali in quelli che la vostra vita quotidiana vi offre; raffigurate le vostre tristezze, e nostalgie, i pensieri passeggeri e la fede in qualche bellezza, raffigurate tutto questo con intima, tranquilla, umile sincerità e usate, per esprimervi, le cose che vi circondano, le immagini dei vostri sogni e gli oggetti della vostra memoria. Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai fotografo da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti. E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi, non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi? Rivolgete in quella parte la vostra attenzione. Tentate di risollevare le sensazioni sommerse di quel vasto passato; la vostra personalità si confermerà, la vostra solitudine s’amplierà e diverrà una dimora avvolta in un lume di crepuscolo, oltre cui passa lontano il rumore degli altri. E se da questo viaggio all’interno, da quest’immersione nel proprio mondo giungono immagini fotografiche, allora non penserete ad interrogare alcuno se siano buone immagini fotografiche; né tenterete d’interessare per questi lavori le riviste: ché in loro vedrete il vostro caro possesso naturale, una parte ed una voce della vostra vita. Un’opera d’arte è buona, s’è nata da necessità. In questa maniera della sua origine risiede il suo giudizio: non ve n’è altro. Perciò, egregio signore, io non vi so dare altro consiglio che questo: penetrare in voi stesso e provare le profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi la risposta alla domanda se “dobbiate” creare. Accoglietela come suona, senza perdervi in interpretazioni. Forse si dimostrerà che siete chiamato all’arte. Allora assumetevi tale sorte e portatela, col suo peso e la sua grandezza, senza mai chiedere il compenso, che potrebbe venir di fuori. Ché il creatore dev’essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato.
Ma forse anche dopo questa discesa in voi stesso e nella vostra solitudine dovrete rinunciare a divenire fotografo; (basta come ho detto, sentire che si potrebbe vivere senza fotografare, per non averne più il diritto). Ma anche allora questa immersione, di cui vi prego, non sarà stata invano. La vostra vita di lì innanzi troverà senza dubbio vie proprie, e che vogliano essere buone, ricche, e vaste, questo io ve lo auguro più che non possa dire.
Che vi debbo ancora dire? A me tutto sembra accentuato secondo il suo merito; e in fine volevo consigliarvi ancora solo di sostenere lo sviluppo calmo e serio; non lo potete disturbare più violentemente che se guardate fuori ed attendete di fuori risposta a domande, cui può forse rispondere solo il vostro più intimo sentimento nella vostra ora più sommessa. (Omissis)
Vi rimando insieme le fotografie che amichevolmente m’avete voluto confidare. E vi ringrazio ancora per la grandezza e cordialità della vostra fiducia, di cui ho tentato di rendermi un po’ più degno di quello che io, come estraneo, realmente non sia, con questa risposta sincera, data secondo la migliore coscienza.
Con ogni devozione e simpatia Rainer Maria Rilke
Il superiore testo riporta fedelmente la prima delle lettere che Rilke inviò al giovane scrittore Kappus. Io, Pippo Pappalardo, mi sono ignobilmente permesso una modesta parafrasi sostituendo soltanto le parole versi, poesia o scrivere, con fotografia, fotografare. Chiedo perdono a tutti gli amanti della poesia ma ho pensato di far cosa utile ai fotografi.
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