A mo’ di chiosa
Ancora un combattimento per l’immagine e, quindi, la pretesa di un’aura a tutti i costi – quell’aura distrutta dalla tecnica riproduttiva -, e ancora la ricerca di una definizione di artisticità da appioppare alla fotografia; ma è proprio questo, poi, che agita ancora i cuori e gli animi dei fotografi appassionati? Magari!
Si ritorna a parlare di Baudelaire e C. (vi raccomando il nuovo libro di Mormorio, Un magnifico inizio, Postcart) e ci dimentichiamo l’influenza e la coerente male-dizione di un Benedetto Croce.
Si sposta sempre più, e per forza di risultati, l’attenzione e l’apprendimento non sul rappresentato ma sul modo della sua rappresentazione sicchè la modalità medesima divierne il “cosa” del risultato fotografico; e tutto questo a discapito di una buona educazione a vedere, e proprio quanto la nostra capacità fisica ed emotiva è quasi consapevole di aver intravisto l’invisibile.
Verissimo. E allora?
Ben venga questa volontà di fare il punto sulle sorti e sullo stato della fotografia, muovendo, nella fattispecie, dalle nostre domande, istanze e perplessità.
Ben venga questa “renaissance” se, dal dibattito che ne consegue, ne scaturisce consapevolezza e coscienza dell’utilità del gesto fotografico e del suo risultato.
Non penso, però, e lo dico preliminarmente, che la nuova tecnica digitale stia modificando i termini di questo dibattito - che come tale è vecchio quanto il cucco e affonda le sue ragioni in correnti di pensiero nate prima dell’invenzione del fotografico (v. Muzzarelli. L’invenzione del fotografico, Einaudi).
L’influenza del digitale distrae un po'troppo e credo che vada indagata sotto un profilo meramente tecnico; e i risultati di queste indagini vadano, poi, vagliati secondo gli assunti delle scienze sociali (sociologia, antropologia, etc).
Ma, al centro della sua riflessione, Emanuele pone una domanda non da poco: in tanto automatismo perfezionato e perfettibile a che serve il fotografo?
E potremmo completare con un’altra domanda che sottende tutto l’intervento di Emanuele:
perché io, proprio io, devo (?) fotografare?
Provo a rispondere, banalmente, ma ci provo.
Ogni fotografo, compreso il sottoscritto, mi aiuta comprendere, e quindi a conoscere, e quindi a interpretare il mondo e le persone che lo abitano consegnandomi la rappresentazione di quest'esperienza.
Di là da tutti i tecnicismi, i trucchi e le esperienze, di là dalle mode, dei critici parolai e degli estetismi da accatto, di là dalle pigrizie e delle viltà, il fotografo è un signore che mi vuol parlare non attraverso una canzone o una poesia o una carezza, ma attraverso un’immagine raccolta come si raccoglie un fiore o come si stacca una pepita, un'immagine pur sempre offerta come un deposito di senso, una convocazione del reale, selezionato e organizzato per una proposta, per un confronto.
Pertanto, bene fa il nostro Emanuele a far convergere il risultato della sua riflessione sull’eticità del progetto fotografico (è proprio questo che dovrebbe interessare i fotoamatori e non gli aspetti teorici che, appunto perché tali, sono solo strumenti per aiutarci a discernere), e della sua necessità, per noi e per chi ci sta accanto.
Mutatis mutandis (che non è un consiglio igienico) ci siamo mai premurati di confezionare il cibo per la persona con cui conviviamo? Organizzargli una colazione, via.
Le scatolette, i surgelati sarebbero là pronti all’uso e firmati dai chefs più alla moda. Garantiti, economici!!!!!
E allora perché ricorriamo al ricordo di come lo faceva la mamma, a quell’erba che non c’è più, a quel tocco di originalità per mascherare, magari, un’incapacità o strappare un sorriso? Perché?
Per l’altro. Che, poi, diventa noi.
La storia della fotografia non è una sequenza cronologica d’immagini che muovono dalla stupidità e giungono alla splendente razionabilità della comprensione o evidenza o perfezione assoluta.
E’ lo sforzo, talvolta titanico, di dare una forma al tempo; così come gli architetti la danno allo spazio: talvolta si è sicuri del risultato, talvolta l’incertezza ci attanaglia.
E allora si avverte il pericolo di ascoltare delle grosse sparate.
Dobbiamo imporci quel che diceva un autore citato da Emanuele: l’onestà come pregiudizio (E.W. Smith).
Solo l’onestà ci spingerà alla ricerca del nuovo e non del moderno, della novità e non della ripetizione, della scoperta piuttosto che del già noto, dell’umiltà piuttosto che della presunzione.
Non c’è, pertanto, una "fotografia all’antica maniera" migliore di quella odierna: c’è una fotografia meditata e un'altra no, una con la quale si vuol travisare il mondo e una che vuole, invece, lasciarlo parlare (Ghirri).
E allora caro Emanuele?
Per fare il punto sulla fotografia dobbiamo tornare a studiare!
Seguire il tuo esempio.
Studiare per rispondere ai dubbi che ci circondano (ma solo per questa ragione). Se no ci basta essere dei fotocopiatori.
|