27 gennaio
Giornata della memoria
Proviamo a ricordare anche noi
“Son morto ch’ero bambino,
son morto con altri cento…” (F.Guccini)
All’inizio fu sufficiente il “Diario di Anna Frank” e il “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Vi trovammo tutto, la speranza oltre ogni speranza, lo stupore oltre ogni possibile immaginazione. Nella nostra biblioteca, quei libri, letti e consumati, recano ancora in copertina due immagini fotografiche: il ritratto foto-tessera della giovane Anna ed una foto di un campo di sterminio.
Questi due libri ci bastarono (e ci bastano ancora) per capire il dramma, per penetrare il dolore, per tentare con le nostre piccole forze di circoscrivere l’inimmaginabile e ricominciare a tessere una trama per custodire, intrecciandoli, emozioni e testimonianze, suggestioni e raccapriccio, e poi sdegno e vergogna, e poi altro ancora di cui tacciamo per non essere accusati di retorica. Quei due libri (e, poi, quelle morti), lo ripetiamo, ci bastarono.
In occasione della “Giornata della Memoria” veniamo, però, spesso sollecitati a fornire qualche contributo in termini di immagini ed allora ci diamo da fare per offrire quelle che i nostri amici hanno realizzato fotografando (chi in laico pellegrinaggio, chi col rimorso del turista) ciò che resta di quei luoghi infernali; qualche volta abbiamo organizzato delle mostre raccogliendo le preziose immagini di fotoreporter che ebbero occasione di riprendere le sembianze, stravolte ed umiliate, dei prigionieri superstiti; abbiamo, talvolta, cercato di penetrare dentro la complessa tematica delle immagini dei campi, sempre accusate di falso, di messa in posa, di visione a posteriori, di mancanza di contemporaneità con i misfatti più ignominiosi.
Ci è parso, in tali circostanze, che, latente, si insinuasse il sospetto che le immagini non potessero avere la stessa forza della narrazione scritta e che il contributo fotografico non potesse avere lo spessore della testimonianza diretta, anzi non ne dovesse avere affatto. Si è arrivati a sostenere che riproporre le immagini della Shoà è mancanza di rispetto, macabro estetismo, ed altro ancora. Ci siamo sentiti provocati ed abbiamo cercato di capirne di più.
Di questo desiderio, qui, facciamo sintetica proposta di approfondimento e, come nostra abitudine, vi segnaliamo i libri rintracciati nella nostra biblioteca sperando che, inforcati gli occhiali, la loro lettura possa aiutarci.
Preliminarmente vogliamo, però, distinguere i libri che contengono fotografie realizzate dopo la liberazione dei campi. Tra questi eccelle
“Il silenzio dei campi”, ed. Contrasto,
del membro Magnum Erich Hartmann, che riflette sulle testimonianze superstiti di quegli infami luoghi e, grazie alla sua visione, ne fa sacrario per tutte le vittime di questi orrori. L’autore non dimentica mai che lui, ebreo, sta fotografando, commista tra quella terra, la cenere dei suoi cari, e rammenta a se stesso che solo il senso profondo di un inscindibile e planetario “noi” può essere il vero omaggio che il suo strumento può offrire alle vittime.
Ancor preliminarmente è nostro desiderio distinguere le immagini che parlano dei maltrattamenti subiti dagli ebrei fuori dai campi, e prima della loro costruzione, anche se siamo consapevoli che tali maltrattamenti rappresentarono solo il primo passo della cosiddetta “soluzione finale”. In tal senso ci appare ancora esemplare
“Un mondo scomparso” di Roman Vishniac, edizioni e/o,
che Elie Wiesel non esita a definire l’unica occasione che fu data al popolo ebreo dell’Europa Centrale di sopravvivere ancora, conservandone la memoria. Tra il 1935 ed il 1940 – il fotografo, poi, riuscì a rifugiarsi negli Stati Uniti – Vishniac riprese le comunità ebree ancora attive ed inserite nel contesto sociale, ignare della tragedia che si stava abbattendo su di loro. Poche migliaia di foto sopravvissero alla fuga, sufficienti a renderci l’idea di istanti che stavano per scomparire nel sangue e nel fuoco.
Ciò premesso, riteniamo che lo sforzo di fornire un quadro complessivo della tragedia dei campi di sterminio nazista sia stato realizzato grazie alla mostra ed al libro
“La memoria dei campi” edizioni Contrasto.
Qui si parla di campi con dovizia di particolari e di informazioni ed è qui pubblicato un saggio di Georges Didi-Hubermann “immagini malgrado tutto”, che consigliamo a tutti i fotografi di leggere e meditare.
Anche perché, avendo tale saggio innestato e provocato un’accesa polemica sul modo di leggere e considerare le immagini dei campi di sterminio, si è offerta l’opportunità di riconsiderare tutta la problematica circa il significato della fotografia, sua attendibilità, interpretazione e valore di testimonianza. Del dibattito, Didi-Hubermann ha fornito ampia sintesi e risposta in altro straordinario libro dal titolo, appunto,
“immagini malgrado tutto”, Raffaello Cortina Editore.
Tutto gira attorno a quattro immagini raccolte fortunosamente da un anonimo ebreo assegnato al triste compito di spingere i suoi compagni dentro le camere a gas. Anche lui, compiuto il mese, sarebbe stato “invitato ad entrare”. Fu fatta arrivare dentro il campo una macchina fotografica e, in maniera non certamente professionale, si riuscì a riprendere un gruppo di persone che spingeva tantissimi cadaveri nella fossa di cremazione ed un altro gruppo che si avviava a morire. Il controllo a posteriori del momento e del luogo della ripresa, l’attento esame del negativo ci dicono a sufficienza che abbiamo la prova tanto cercata, la prova integrale (ricordiamo che tutto era stato dall’organizzazione nazista falsificato e distrutto, e nessun strumento di registrazione era consentito utilizzare nei campi, - in tal senso vedi anche
“L’album di Auschwitz”, Einaudi).
Pochi frammenti, quindi, per avvicinare l’insondabile e l’indicibile; pochi frammenti per afferrare un frammento dell’inimmaginabile. Pochi frammenti raccolti da una vittima, per raccontare, per riscattare, un ultimo frammento di umanità.
Permetteteci, però, una considerazione: chi guardò nell’obbiettivo aveva estrema necessità di non trascurare o perdere l’importanza del documento che doveva comunicare “nel mondo lontano” (così è scritto nell’anonimo foglietto giunto con il frammento di pellicola).
Perché, allora, sprecò, a rischio della vita, il tempo ed un fotogramma per catturare il raggio di sole che penetrava tra il fumo e le betulle di Auschwitz?.
Sta diventando un problema, ma ci si sono nuovamente appannati gli occhiali.
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