L’irresistibile necessità di trasmettere una vibrazione
Concentriamoci sull’errore del “come” allora. Evitiamo di mettere in discussione il cosa fotografare lasciando ad ognuno la sua strada. Proviamo a restare concentrati su tecniche e modi diversi rispetto alle regole canoniche e ritorniamo al punto di partenza di marco Pinna.
Cosa spinge un fotografo ad utilizzare il mosso? Qual è e da dove nasce quella irresistibile necessità di dover assolutamente trasmettere una vibrazione al lettore? Perché il mosso? Esistono altre motivazioni oltre a quelle individuate dal pittorialismo o dal futurismo che spingono verso queste particolari tecniche di ripresa?
Tra le scelte tecniche di ripresa utilizzate dal fotografo il mosso diventa un mezzo di espressione, una parte di un linguaggio od addirittura un linguaggio completo. Questo è un atteggiamento un modo attraverso il quale sviluppare un’idea, da ciò occorre certamente cercare l’idea e capire il “perché”, altrimenti non può essere chiaro il messaggio finale del fotografo (ammesso che non ci si voglia invece limitare a trovare una propria interpretazione di ciò che si vede e legge). Poi esiste un mosso proprio delle cose, forse solo di alcune o forse del mondo intero.
Per me il mosso è il rappresentare l’invisibile, fatto di esperienze e vite nascoste che si annidano ed evolvono parallelamente "nel tempo infinitesimo, compreso in un istante". Se posso parafrasare ancora una volta Italo Calvino, sono “realtà invisibili”, alternative, immaginarie ma reali, verosimili ed improbabili. In fondo Zaira, Tamara, Anastasia, Zora e tutte le altre città della memoria, del desiderio ma anche quelle dei sogni, insomma tutte le città nascono e si sviluppano nel genio di Calvino, ma non solo! Per me esistono, vivono e si alimentano in dimensioni alternative della realtà, in spazi personali che ci costruiamo e che per tanto esistono!!! Basta trovarle e narrare di questi luoghi...
Ovviamente esistono diverse altre interpretazioni, tutte valide ed affascinanti, oltre che molto autorevoli delle mie, ed alle quali mi sento molto vicino sino spesso a sconfinare ed appropriarmene alla scoperta dei miei “perché” dei miei “come” e persino dei “cosa”, ahi ancora una volta il “cosa”. Alcune sono spesso anche dettate dalla necessità o dalle situazioni al contorno, dettate dalla concitazione della scena e/o dalla paura al momento dello scatto, basti citare lo sbarco in Normandia del grandissimo Robert Capa, ma anche del contemporaneo ed ottimo Pietro Masturzo che nel “sui tetti di Teheran” così come in altri lavori altrettanto impegnati e socialmente a rischio per i quali avendo spesso la necessità di non far riconoscere i protagonisti del suo reportage per salvaguardarne l’incolumità, risolve con il mosso. Si ricorre al mosso per lasciare un alone di mistero, per suggerire un’atmosfera onirica, o per lasciare palesare ricerche introspettive od aspetti intimi. Il mosso (e ribadisco anche le tecniche affine di cui abbiamo parlato in apertura) trasmettono vaghezza ed incertezza delle dimensioni spazio temporali o più semplicemente rendono meno cruda ed esplicita una particolare situazione. Ed ancora, si fa ricorso a tali linguaggi quando si vuol lasciare spazio e stimolare proprie proiezioni psicologiche rispetto all’immagine che vuole essere mostrata o la storia che viene raccontata. Potrei ancora continuare insistendo sull’esperienza del sogno o degli stati di alterata coscienza che all'esperienza sensoriale normale.
Una cosa per me è certa, avere la conoscenza del mezzo è fondamentale ed irrinunciabile, ma riuscire ad esplorare la realtà attraverso il proprio modo, le proprie visioni, le proprie idee ed i propri linguaggi completa la metamorfosi, fino a trasformarsi in pura poesia, esaltazione, estasi e rassegnazione in una convulsa alternanza di stati d’animo secondo ciò che viene vissuto per essere raccontato e tramandato. Per far ciò con ogni probabilità è necessario “imparare a sbagliare”!
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