William Eugene Smith (1918)
Fotografo documentarista statunitense.
Nel 1936, fu ammesso alla
Notre Dame University, dove un corso di fotografia fu istituito appositamente per il promettente giovane fotografo. Università comunque poi abbandonata.
Nel 1937 inizia a lavorare per
Newsweek (allora News-Week), ma fu presto licenziato per essersi rifiutato di fotografare con macchine a medio formato. Passò così a collaborare con l’agenzia
Black Star da freelance.
Nel 1939 inizia una collaborazione con la rivista
Life che lo porterà, nel corso degli anni successivi, a coprire come fotografo la seconda guerra mondiale (area pacifico, scontro americano-giapponese): alcune delle immagini scattate durante queste operazioni sono oggi vere icone della seconda guerra mondiale, pietre miliari e storia della fotografia.
Il 1945, ferito al volto dall'esplosione di una granata, segna l’inizio di un periodo di lunga riabilitazione, in cui si domandò più volte se avrebbe mai ripreso a fotografare. La fotografia
"A walk to Paradise Garden" fu la prima realizzata dopo la malattia, e simboleggiò perfettamente la rinascita dell'autore che ritorna a collaborare con Life per realizzare alcuni dei reportage più celebri pubblicati dalla rivista americana.
Nel 1955 inizia a collaborare con
Magnum fino a diventarne membro nel 1957.
Tra i suoi lavori si ricordano:
"Spanish Village" (per
Life) Spagna in pieno franchismo, e
"Country Doctor" (anch'esso per
Life), sull’attività di un medico generico nella campagna americana.
Nel 1971 realizzò uno dei suoi lavori di reportage più noti e riusciti
"Minamata", sugli effetti dell'inquinamento da mercurio in Giappone. Splendido anche il lavoro su Haiti.
"Photo is a small voice, at best, but sometimes - just sometimes - one photograph or a group of them can lure our senses into awareness. Much depends upon the viewer; in some, photographs can summon enough emotion to be a catalyst to thought."
I suoi bianconero,
"sporchi" e intensi come pochi, con neri cupi e bianchi accecanti dei suoi servizi eccezionali: tanto da essere uno dei più grandi reportagisti di tutti i tempi. Il suo percorso di fotografo è caratterizzato da genialità e maniacalità (ad esempio, caso più unico che raro, Smith ottenne da
"Life" il permesso di sviluppare e poi stampare da sé le proprie immagini, proprio in conseguenza della sua ossessione verso il controllo assoluto di ogni fase del suo lavoro), misto a manie di grandezza che lo portano a concepire lavori enormi che per ciò non potranno mai essere finiti. Elementi tutti che lo associano all’immagine di artista maledetto. Anche la sua storia personale amplifica l’idea: il padre suicida quando Smith aveva 18 anni, una madre fotografa con personalità dominante, un continuo rapporto di amore-odio con gli editori e le riviste per cui lavorava
“da un lato sedotti dalle sue superbe fotografie, dall'altro sgomenti dinanzi ai sistematici ritardi di Smith nelle consegne e alle sue richieste di assoluta autonomia nel realizzare i servizi”, ed ancora le difficili esperienze di guerra culminate con una grave ferita al volto, ma ancora due matrimoni e due divorzi, depressione, alcolismo, bancarotta finanziaria. Tra i progetti incompiuti: il lavoro su
Pittsburgh e l'idea di
"The walk to Paradise Garden", una sorta di libro totale ed autobiografico che Smith non riuscirà mai a realizzare. Il capolavoro sono la sua vita e la sua opera, perfettamente e magistralmente descritte nel
"Il senso dell'ombra" imponente monografia che presenta 350 fotografie ed una nutrita serie di scritti e saggi relativi all'opera di Smith.
Per quanto riguarda i riflessi ecco alcuni esempi. Anche Smith, come tutti i grandi fotografi e non solo i grandi arriva a fotografare i riflessi. Ecco tre riflessi per tre diversi concetti.
Smith scrisse:
"Bisogna rendersi conto che la fotografia è la più grande bugiarda che ci sia, complice la convinzione che essa ci mostri la realtà così com'è". Ed anche: "Il fotogiornalismo, a causa dell'enorme pubblico a cui arrivano le pubblicazioni che se ne servono, influenza le idee e l'opinione pubblica più di ogni altro ramo della fotografia, per cui il fotografo-giornalista deve avere (oltre all'indispensabile padronanza dei mezzi) un forte senso dell'onestà e l'intelligenza per capire e presentare il suo soggetto opportunamente". Smith aveva un’attenzione maniacali verso le sue immagini, disponeva spesso i soggetti a suo modo, intervenendo parecchio in fase di post produzione in camera oscura, in alcuni casi (pare) esponendo insieme negativi diversi, mascherando e bruciando fino all'eccesso. Rifiutava assolutamente l'idea che una fotografia potesse costituire
“una oggettiva e autentica rappresentazione del reale”, preferendo esprimere la veità come lui la percepiva in latre parole il suo punto di vista:
"bisogna osservare e sentire ciò che ci circonda e interpretarlo, traducendolo in un lavoro finito". E dunque, se necessario aggiustava
"la realtà per farla aderire meglio alla verità". Le immagini risultanti sono magnifiche e probabilmente più rappresentative.
Mi chiedo quanto di vero e di spontaneo, di effimero o casuale ci sia nei suoi riflessi... Chissà quale era il suo approccio anche con questo tipo di fotgografia... Costruiva e controllava anche i riflessi... quante volte avrà fatto posare Chaplin innanzi a quello specchio prima di scattare la foto che inseguiva? Quanto tempo in acqua avrà trascorso il soggetto prima di entrare nella storia insieme al fotografo che l'ha ripresa? Quanta realtà e quali bugie nascondono i riflessi? Riflessi... sono sempre e comunque riflessi, eppure continuano a farmi "riflettere"!