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Pulizie di Pasqua:Settimane di Passione (1 in linea) (1) Visitatore
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Discussione: Pulizie di Pasqua:Settimane di Passione
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Pulizie di Pasqua:Settimane di Passione 12 Anni, 1 Mese fa Karma: 9  
Pulizie di Pasqua:

Si, ci fu un tempo che si facevano le pulizie di Pasqua, per dare il benvenuto alla primavera, perché poi, magari, le nostre case, sarebbero state anche benedette.
Anch’io sto facendo pulizia nella memoria del mio pc., e, stimolato dagli amici, trasferisco in questa rubrica quanto scrissi per un libro, a me assai caro, costruito sulle immagini dei fotografi A.N.A.F_ ovvero la “Settimana Santa in Scordia” ed. Lussografica. Una copia è reperibile nella Biblioteca in sede.
Credo ancora in quello che ho scritto, tant’è che spesso vi ritorno. La volontà di riprendere il vecchio testo nasce come gentile risposta ad un invito dell'amica Rossella Fernandez e come corollario all'intervista televisiva degli ottimi Salvo Canuti e Salvo Sallemi.

La luce e le immagini

Dall’incontro e dalla straordinaria collaborazione tra Adrienne von Speyr ed Hans Urs von Balthasar, quale altissimo contributo alla contemplazione dell’immagine e, quindi, alla sua comprensione, nasce l’originale proposta di guardare all’evento pasquale come al momento che conferisce all’universo ed alla storia - anche alla storia individuale ed alle realtà ed agli eventi quotidiani del mondo - un significato nuovo. La consapevolezza di questo significato è il contemporaneo riconoscimento della sua bellezza. Il tramite di quest’esperienza è l’immagine.
Nei segni pasquali tutto diventa luce e rivelazione di una realtà nuova, cifra di un mondo redento, simbolo e sacramento della redenzione operata da quel figlio in vista del quale tutto è stato fatto.
Occorre, quindi, guardare attentamente ai simboli del reale, sui quali l’egregio Gambera, con storica dovizia, ha rivolto la sua attenzione, per raccogliere quei segni del tempo e dello spazio che racchiudono la memoria della Passione Santa.
Anche perché c’è pure una “Passione secondo noi”, tutta da riconoscere alternando, nella conoscenza, velamenti e svelamenti. Per comprenderla, abbiamo bisogno di accettare la Luce e l’ombra e, nel nostro caso, quella della notte, la notte della croce, attraverso cui è d’uopo passare.
E’ essenziale, quindi, partire da queste immagini perché se è vero che Cristo si è incarnato, è morto ed è risorto, allora, il suo ritorno al padre non eliminerà mai più l’affermazione che egli è stato sulla terra.
Sulla terra, intanto, gli uomini sono in cammino e guardano alle immagini come a frammenti di un universo che conoscono ed amano. Frammenti, a loro volta, visitati da un altro frammento di mondo che sopra ogni cosa gli uomini hanno amato, cosicché ogni cosa terrestre è diventata trasparenza del cielo.
I simboli e le immagini, infatti, se guardati con amore esprimono questo desiderio nostalgico ed invitano a ripetere i segni della memoria e della preghiera, a crearne di nuovi: “la realtà, se guardata intensamente, - dice un poeta - vuol fiorire nell’amore”.
Fuori di questa prospettiva, la “Settimana Santa”, a Scordia come a New York, potrebbe apparire solo teatro, nobilissimo teatro, ma pur sempre teatro.

L’ombra

Nell’orto, oltre il torrente Cedron, l’uomo è triste ma risoluto. Ora invita i suoi discepoli a stargli vicino, in veglia. Lui andrà in disparte per pregare. Qualcuno ha provato a fargli compagnia ma lui ha preferito rimanere solo.
La preghiera si è fatta più intensa e, con la preghiera, la sensazione di solitudine gli va rivelando lo stato di profonda tristezza e d’angoscia in cui è immerso il suo spirito. Sa cosa l’aspetta e, di fronte all’ultima tentazione, prova a chiedere aiuto agli amici pregandoli di non dormire più e vegliare con Lui. Insiste, per tre volte, ma inutilmente. Chi dovrebbe vegliare cede ormai al sonno.
In questa solitudine inizia la lenta agonia, il combattimento tra la vita e la morte.
Molti secoli dopo, qualcuno ricorderà che quell’uomo “sarà in agonia fino alla fine del mondo e non bisogna dormire fino a quel momento”; qualcun altro, in un film, riconoscerà la solitudine totale di Cristo come l’emblema supremo dell’esperienza che ogni credente fa dell’assenza di Dio nel tempo della tenebra.
Un angelo, intanto, è venuto a consolarlo, ma la tensione si è fatta ancora più forte e già suda sangue.
Davanti ai suoi occhi scorrono le immagini di quanto accadrà da lì a poco, di quel discepolo che lo tradirà provocando la sua divinità, di come sarà percosso ed oltraggiato, processato e giustiziato.
Poi, ci saranno tre giorni bui come la notte più nera dove non ci sarà più senso per gli occhi e si dovrà sperimentare il vuoto e l’assenza, il non ascolto ed il rifiuto, ed infine l’abbandono d’ogni gesto d’amore.
E’ impossibile che questo possa accadere! Ma deve accadere ed accadrà. Ed allora “Sia fatta la tua volontà, Padre, e non la mia”.
“No, credere a Pasqua non è giusta fede – griderà il suo servo nel Duomo di Milano – Troppo bello sei a Pasqua! Fede vera è al venerdì, quando Tu non c’eri lassù! Quando non un’eco risponde al suo alto grido e a stento il nulla dà forma alla Tua assenza”.
Quale terribile tentazione. Potere non soffrire? Potere non morire? No.
La vera tentazione, la causa d’ogni sofferenza, è un’altra: è “pensare, solo il pensare, ” che il sacrificio possa risultare inutile per la salvezza delle creature di cui ha preso la dolce sembianza.
La vera tentazione è potere non credere, anche solo per un attimo, che l’uomo è capace di Dio. Bisogna, quindi, che la sua umanità beva fino all’ultimo un calice d’amarezza e faccia della morte un felice passaggio, diventi Pasqua. Occorre che la sua essenza umana dimostri a quella divina che l’uomo è capace di entrambe, è capace di riconoscere e, riconoscendo, partecipare della gloria.
Il riconoscimento avrà un nome, una parola che egli ha già posto all’inizio della preghiera che un giorno ha insegnato ai suoi fratelli, agli amici di sempre. Nella sofferenza, stavolta, l’intona vezzeggiandola, intenerendola.
E sarà “Abbà, papà, paparino, papuccio”, quasi un suono onomatopeico, come a ricordare alla notte ed alla natura che lo circondano che tutto ha un senso e si risolve in un’eterna comunione.
Legato ad una colonna, frustato, incoronato, camuffato, poi, cadrà lungo la strada che prenderà il nome di quello strumento che gli pesa sulle spalle e sul quale sarà inchiodato. Una strada che sarà chiamata “via dolorosa” perché in tanti, in quella settimana di passione, e in tante settimane ancora, proveranno drammaticamente a riconoscerlo. Vedendo, diranno: “ma non era il profeta, il guaritore, il maestro saggio, il figlio del falegname, il nuovo re?” E, poi, si dirà, pure: “E’ mio figlio, è il nostro amico, l’uomo che mi ha guarito il cuore, il condannato che soffre ingiustamente, l’omu bbonu che va a morire; è la nostra innocenza che non può morire!”
Vedono e lo riconoscono, e lo riconosceranno ancora. Anche perché ricorderanno che un giorno ha insegnato proprio a loro come vedere e dove guardare.
Trattenendo l’immagine non più come ricordo ma facendo memoria con essa, ne piangeranno umanamente il dolore e la gioia. Umanamente piangeranno perché il cuore dell’uomo è il tempio da sempre scelto per esprimere questo dolore e questa gioia. Un tempio e non un teatro.


Il segno.

Nella liturgia, pubblico servizio offerto dalla comunità per custodire la memoria, è facile riconoscere e distinguere le forme dei segni che ci siamo inventati: il “teatro”, odèon laddove un uomo immola il tragos chiedendo al dramma il senso della propria esistenza; il “cammino”, itinerario entro cui risolvere l’attenzione alla natura, al tempo, al suo volgersi e mutarsi; ed il “rito”, cerimonia per rendere l’espressione visiva e sonora dell’evento.
Ecco, quindi, ritornare l’immagine quale eterna mediatrice tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile. Torna l’imago che nell’antichità è la maschera funebre, il legame con la morte che trapassa agevolmente dal mondo pagano nel mondo cristiano proprio perché le immagini difendono il significato “diverso” della morte, ne preservano la memoria e quell’identità che ha intrappolato tempo e spazio e che, ormai, attende solo chi la liberi e gli dia vita ed espressione.
La rappresentazione diventa, allora, l’occasione che rende presente l’assente, assumendo quel valore simbolico chiaro ed evidente nell’etimo di simbòlon, la tessera spezzata le cui metà si utilizzano per il reciproco riconoscimento.
Nella Passione Santa la comunità si riconosce, s’immedesima, diventa interprete di ogni simbolo di quest’intreccio di festa e teatro, penetra fiduciosamente l’evento del mondo con gli strumenti della recitazione e della rappresentazione, fa partecipare al rito la natura stessa. Bufalino vi raccoglierà il desiderio tutto siciliano di sentirsi attore, prima dolente, poi esultante, di un mistero che è la sua stessa esistenza.
Ma questo mistero dell’esistenza trova nella rappresentazione dei misteri pasquali - morte, resurrezione ed ascesa al cielo – la più sincera rivelazione: tutto è segno.
Segno è sema, pietra tombale, e nella lingua di Omero sema chein significa erigere un sepolcro. Nella liturgia della Passione Santa (ed ancor più nella tradizione greca ortodossa) non facciamo altro che recuperare queste evidenze e somiglianze per riaffermare che la discesa agli inferi di Gesù attesta che lui è morto veramente. Lo sa per prima sua madre che, addolorata, ne accompagna il corpo alla sepoltura. La Madre è assolutamente consapevole che quel figlio ha conosciuto la vera morte: è la morte, infatti, quella che ormai si è spenta nel corpo di suo figlio. La morte vera ha colpito solo lui che è morto di una morte che nessuno prima di lui aveva redento. Oltre questa morte c’è la vita, ed è realtà tutta ed ancora da rappresentare.
Non è per questa ragione che cerchiamo, nelle Settimane di Sante Passioni, in Sicilia e dappertutto, la contemplazione che contrasti la rappresentazione di una morte mero orizzonte del nulla?
Si, è vero, tutto muore nello stesso attimo in cui vive, e passa e svanisce. E questa morte contrassegna i nostri sentimenti e definisce i nostri pensieri ed i nostri atti segnandoli con l’esperienza dolorosa del limite. Ma oggi camminiamo tutti per accompagnare la nostra umanità che, come quella di Cristo, vuol tornare alla casa del padre.
E vogliamo conservare l’immagine del nostro cammino.

Il tempo liberato

L’immagine è forma del tempo. Nel tempo abbiamo dato forma alla Coena Domini, al Calvario, alla Depositio Crucis, alla Visitatio Sepulchri.
Dalle consuetudini monastiche raccolte nella Regularis Concordia, fino alla fase originante in epoca medievale e fino alla fase di strutturazione in epoca barocca, il desiderio di seguire il Cristo, nel suo farsi intermediario tra l’umano ed il divino, ha spinto l’umanità in lui credente a rappresentare il misterioso significato della sua essenza.
Le immagini più comuni della Passione di Cristo, anche qui a Scordia, sono il Cristo morto, la Crocifissione, il Cristo alla colonna (presente, ed il nostro caso lo conferma, più diffusamente nella Sicilia orientale) l’Ecce Homo, l’Addolorata, la Maddalena e San Giovanni. Il dinamismo di queste immagini è affidato alle processioni, alle cerche ed agli incontri, alla civica presenza di confraternite e corporazioni.
Angelo Plumari, liturgista, dopo avere a lungo studiato la rappresentazione dei giorni della Passione, pur avvertendo il pericolo dell’enfatizzazione del lutto e della morte e dello spiccato senso di drammaturgia collettiva del popolo siciliano, individua il vero significato di questo vivere il tempo sacro in un’interazione tra la drammaturgia popolare ed il mistero dell’incarnazione: nella Settimana Santa si rivela con forza la percezione che i siciliani hanno della persona del Cristo, immagine del Figlio sofferente, morto innocente, posto in strettissima relazione con la Madre sua e sulla quale si riversa l’immedesimazione e la pietà popolare
Sulla drammaturgia che intercorre tra queste immagini e la contemplazione popolare si è appuntata l’attenzione della migliore fotografia.
Varie, e tutte di altissimo livello, sono state le ricognizioni fotografiche dei riti pasquali siciliani.
Dal primo sguardo rivolto quasi a cercare l’esotico di quanto celebrato, si è passato a quello più scientifico dei fotografi a seguito dei demologi e degli studiosi di tradizioni popolari. Poi venne l’ottimo Scianna che fotografò, a mio avviso, i siciliani e non il loro senso religioso. Su quelle immagini pesò un intelligente saggio di Leonardo Sciascia che innescò polemiche di cui oggi stentiamo, però, a cogliere l’effettivo valore. Più recentemente, Diego Mormorio è ritornato sull’argomento, grazie alle fotografie di Giuseppe Leone, con pregevoli suggerimenti di ricerca; una ricerca che, sempre a mio avviso, ha positivamente utilizzato i contributi dell’antropologo Buttitta e della fotografia di Melo Minnella.
Oggi, con questo libro, sono i fotografi A.N.A.F. (Associazione Nazionale Arti Fotografiche) a confrontarsi con la Settimana Santa in Scordia. Come è stato giustamente detto, trattasi di “fotografi abituati a conoscere ed a valutare le arti e le opere umane, a svolgere una funzione critica utilizzando un’appropriata metodologia d’analisi che permette loro di esprimere il linguaggio e le capacità del mezzo fotografico, individualizzandole ed adattandole alle loro motivazioni interiori”.
Pertanto, come fotografi si sono confrontati con il tempo, lo spazio e la parola, di cui l’ottimo Gambera fa memoria, cercando di restituirne la forma, l’impronta, la traccia, l’indizio, il ricordo e l’icona.
Il loro obiettivo non ha frugato nel passato ma è stato immerso, più che nel presente, in quel tempo circolare che è, appunto, il tempo sacro dove la comunità non ripete gli antichi gesti ma fa nuove le immagini della sua partecipazione.
Qui a Scordia, hanno compiuto un gesto che, se volete, è simile a quello della donna che sulla “via crucis” offrì un panno per asciugare il sangue del divin volto. Che natura ha l’impronta rimasta? Che natura hanno le immagini che si sono depositate sul fondo delle camere oscure dei miei amici fotografi?
Hanno la stessa natura della luce pasquale: con questa hanno scritto e preso appunti sui significati della vita, del vivere in comunità, del vivere la memoria. Significati a volte amari, difficili da comprendere ma filtrati, e resi al dialogo, dalla costrizione selettiva dell’inquadratura e dalla decantazione della camera oscura.
Una voce lontana, parodiando, li aveva ammoniti: “Che cosa siete venuti a cercare? Volete, forse, trovare chi è morto in mezzo ai vivi?”
Hanno, quindi, fotografato la Vita, la vera protagonista della Passione, che traspare da ogni fotogramma e si affaccia anche in questo libro.
Sapevano che i volti incontrati avrebbero dato significato alla tristezza ma erano coscienti che, dietro, ci stava pure il sorriso della speranza.
Nel mistero dell’incarnazione e nel significato nuovo dell’immagine hanno riposto il senso del loro fotografare, riconoscendo che le forme che man mano davano alla memoria liberavano il tempo in essa racchiuso.
Hanno, altresì, sperimentato che per raccogliere la Buona Immagine occorre preparare lo spazio per accoglierla. Così sono diventati poveri per percepire, al di là del teatro, oltre il cammino ed il rito, la semplicità luminosa di antichi gesti con i quali, ancora una volta, si è inteso fare memoria della più strana storia raccontata dagli uomini agli uomini.
Io, che sono uno di loro, vedo le immagini proposte e sento l’eco delle loro domande. Una mi colpisce: “Se sei risorto, spiegami la morte”.
Non so se chi l’ha posta sta guardando una fotografia o, forse, ha incontrato qualcuno. Probabilmente è solo l’inizio di un’altra Passione.

Pippo Pappalardo
 
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Ultima Modifica: 2012/04/06 11:52 Da PipPap.
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