Pam….zip
Seguire a distanza il dibattito sereno e lo scambio di opinioni di due amici appassionati di fotografia è un autentico piacere che diventa, poi, motivo di soddisfazione quando rintracci nell’esposizione del loro pensiero un approccio espositivo e razionale cui ti senti di appartenere, quanto meno perché ne condividi l’assunto, gli esempi, i punti d’incontro e di contatto.
Muovendo da questa premessa, non dovrei intromettermi nell’esposizione appassionata e sperimentata di Emanuele e di Alberto ma mi sento di farlo per quel bisogno che gli “scolastici” medievali chiamavano explicatio terminorum ovvero necessità di chiarire, più che stabilire, dei punti fermi e condivisi per evitare di perdere la qualità e il pregio della riflessione.
Pertanto:
- Siamo tutti d’accordo che se il soggetto di una fotografia si muove mentre l’otturatore scatta, la sua immagine rimarrà mossa sulla superficie della pellicola o del sensore. Non importa se il soggetto si muova lentamente o se l’otturatore si apra o si chiuda velocemente: l’immagine, in ogni caso, si muove. A causa di questo movimento il file, il negativo, o la stampa derivata, potranno apparire – in modo più o meno marcato – non nitidi e, se ingrandiamo, il fenomeno sarà più evidente.
- Tuttavia, con svariati accorgimenti, possiamo evitare “l’inconveniente” e ottenere un nitore assoluto; così come possiamo volutamente raggiungere il contrario ovvero “un’altra immagine”.
Avete già capito dove intendo portarvi:
c’è un mosso che sta nel “cosa”, nel referente che tanto amiamo (atteso che lo andiamo a scovare puntandogli addosso l’obiettivo); talvolta esso stesso è l’oggetto da riprendere o la qualità del “cosa”di cui non possiamo prescindere.
E c’è un mosso, invece, che non appartiene a ciò che stiamo guardando ma è il nostro modo di “esprimere” proprio quel qualcosa, quel qualcuno.
Questo mosso non obbedisce alla regole della meccanica e della fisica, e neppure del tempo, ma, ben volentieri, si sottomette a quelle della volontà del nostro sentimento (occhio, cervello e cuore); é il mosso che non sta davanti all’obbiettivo ma dietro; è lo strumento di cui ci avvaliamo per “connotare” quel mondo che ci sta accanto, ancorché dentro o fuori di noi.
Non c’è un automatico modo di gestirlo: è un problema di sensibilità comunicativa, in altre parole, desiderio di farci comprendere.
Il miliziano che cade morente, o le pallottole sulle spiagge della Normandia sono oggettivamente mosse, così come è mossa la fifa e la tensione. Ma Haas non avrà la stessa preoccupazione di Capa; la sua “IDEA” fotografica nasce da una differente esigenza di documentare e narrare.
Così come l’uso inappropriato di uno scalpello spuntato tra le mani di uno scultore, può divenire “segno” e, quindi, metafora dell’inadeguatezza del confronto tra la volontà di scolpire e la resistenza dura della materia, il mosso, reale o cercato, può assolvere egregiamente la funzione di strumento retorico per raggiungere possibilità espressive altrimenti non comunicabili.
Quindi il “mosso” è solo uno strumento a nostro uso e capriccio? Non proprio.
L’amico Alberto, tenendo assai care le sue ricerche professionali, giustamente sente il mosso dei Bongiorno e dei Carlisi come elementi sia tematici che poetici, e insieme, capaci di comunicare qualcosa che, di primo acchito, può apparirci inespressivo.
Eppure, tecnicamente parlando, Carmelo B. “combina” il mosso” con la provocata sfocatura (soprattutto dei riflessi) e Franco C. adopera risolutamente il flash per bloccare il protagonista in primo piano e lasciare che lo sfondo (non raggiunto dalla luce) si autodetermini nel tempo lento dell’otturatore. Due mossi posticci?
No, assolutamente: il primo mosso, strumentalmente confessa l’esistenziale incapacità o impossibilità di percepire distintamente, laddove il secondo, altrettanto strumentalmente, intende far emergere il presente dal remoto, dal distante, dal mondo fatto ormai di ombre che fuggono. E ci riescono benissimo, e paradossalmente!
Ma vorrei dimostrarvi direttamente quanto ho provato a esprimervi. Prendo a pretesto, e non mi scuso (perche sarò perdonato), il tempo della Lucca di Alberto:
QUELLO E’ ADDIRITTURA UN MOSSO SONORO!
Il suono del silenzio? Beh, perchè no.
Qua e là, evocato e sotteso, anticipa l’impaccio di una confidenza, l’attesa di una rivelazione.
S’affaccia da una finestra, si nasconde nell’ombra, si fa riflesso, eco, bagliore, ascolto, nostos ed algos ma, anche, fiducia nella luce del giorno nuovo. (Oh grande, immenso, Ackermann!!!!). E senza bisogno di scie, senza cancellare il referente (non è che il mosso sia un inconscio rifiuto della normale visione del mondo?), semmai accordandogli il fremito del sentimento e, magari, con pudore, chiedendogli di lasciarsi fotografare con uno scatto meno …. nervoso.
Henri Cartier-Bresson, che Manuel porta sempre con sé, ha catturato meglio di tutti il mosso che io intendo, restituendoci il dinamismo del documento (laddove il documento questo possedeva) e, nel contempo, spiegandoci che l’attimo si rivelava decisivo perché una geometrica esposizione del mondo invitava il medesimo a dialogare con noi semplici lettori, mentre lui, fotografo, tra tanti accadimenti e tumulti emotivi, spariva.
E quel cretino di Pippo, invece, a questo punto, avrebbe gridato: “Fermi tutti, vi prego, ricominciate daccapo” oppure, e peggio: “Vi raccomando. Diaframmi stretti solo se potete, tempi ritardati e Iso 1600”
NON DATEGLI RETTA!!!!!
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