ACAF - Associazione Catanese Amatori Fotografia

 
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Anche noi berlinesi? PDF Stampa E-mail

di Pippo Pappalardo

maschere.jpgIn questi ultimi tempi, ho risolto che fotografare sia semplicemente “chiamare le cose per nome”. Individuare nel mondo, attorno e dentro di noi, circostanze, persone, figure, colori e, quindi, attraverso l’obbiettivo (in un’appassionata contemplazione e ragionata prospettiva), riconoscerne il nome, sperimentandone la presenza, la percezione, la natura, la storia.
Qualcosa di simile accadde a J.F. Kennedy quando, riflettendo sulle vicende della città di Berlino, e riconsiderandone la storia, ne fece sua l’intera drammaticità sicché alla fine dichiarò: “Io sono un berlinese”. Quindi, anche lui, chiamò per nome quel retaggio di esperienze profonde e disperate che era Berlino all’inizio degli anni 60 e, nella tragica agnizione della sua realtà, la riconobbe in compassionevole consonanza.
Tale dichiarazione, in quel tempo, fu intesa come un incoraggiamento, un invito a non aver paura, a farsi forza. Oggi, invece, cogliamo l’aspetto profetico di quel grido: nel farsi carico della storia di ogni uomo sta la speranza d’imboccare una strada     migliore per il futuro dell’umanità.
Se ci pensate, Kennedy proseguiva nella sua politica delle “nuove frontiere” muovendo stavolta da Goethe e da Beethoven. Spogliava la sua identità irlandese ed americana ed abbracciava quella tedesca chiamando per nome ciò che accadeva sotto i suoi occhi ovvero che una città stava riprendendosi il suo passato ed il suo futuro e lui, di quell’’esperienza, voleva sentirsi parte, protagonista, cittadino, vivendone la storia - ritrovandovi la sua - piena di ansie ma anche di speranze.
Il “io sono un berlinese” contrassegna il reportage fotografico di Daniela D’Arrigo, Rossella Fernandez, Lucia Pulvirenti, oggi sintetizzato anche in un ottimo audiovisivo da Francesco Barbera, che ripete la stessa titolazione e procede con raffinato quanto adeguato accompagnamento sonoro. Frutto di una “missione” nella capitale tedesca delle nostre tre amiche, si rivela un lavoro di pregevole fattura perché, lungi dal rappresentare il resoconto di un soggiorno, si conferma una profonda considerazione sul confronto tra lo sguardo fotografico e la natura e il destino delle città. Potevano, infatti, le nostre ragazze afferrare il lato romantico della città di Berlino -che città romantica è, per eccellenza, per nascita, conformazione e cultura filosofica- potevano proprio a questa cultura chiedere le espressioni più significative del passato e del presente. Hanno preferito, invece, raccogliere l’immagine di Berlino là dove vive “come città”, con la sua  capacità di fare memoria, di conservare le emozioni, di progettare l’incontro, di vivere la pace.
E la tragedia allora? Le mie ragazze, come me non erano ancora nate negli anni del dopoguerra, e, almeno loro, neanche quando il Muro, terribile ferita, tagliò in due la città separando storie, famiglie, sentimenti, e provocando una cicatrice su cui oggi ancora meditiamo.
Le mie ragazze, oggi, raccontano dove abitano quelle emozioni, dove, tra tanto benessere, riaffiora più serena l’immagine della tragedia, dove la vita ha ripreso con  orgoglio la sua memoria, per farsi “ricordo” e, quindi, a ricondurre alle ragioni del cuore le ragioni dell’esistenza.
Tanto leggo nel loro reportage: gli edifici sono là, con il loro carico di simboli e di significati ma l’obbiettivo attraverso cui sono guardati è attento a decifrarli senza perderne il battito del tempo e della speranza; sono visioni, pertanto, che mirano alla contemporaneità, alla consapevolezza del presente quasi ad avvertirci che l’eccessiva riconsiderazione del passato o l’ansia per i  giorni futuri può farci distrarre dal presente ed impedirci di capire la bontà di un cambiamento che passa soprattutto per i luoghi dove abitano le emozioni.
Berlino non è città facile da decifrare; la storia ti assale e t’impedisce di entrarle in confidenza; peraltro, la raffinata intelligenza con cui sono costruiti edifici e palazzi non sempre, nel ritmo odierno, è di facile percezione.
Le mie ragazze, però, ripongono tanta fiducia nel guardare e riescono a documentare la  realtà che sta davanti ai loro occhi muovendo da singoli frammenti visivi e con una riflessione per niente silenziosa individuano il mutevole rapporto fra pietre e persone misurando la distanza fra la statica dei viali e la dinamica della gente: ascoltando i segni visualizzano il reale, cercano e trovano una sintesi del vissuto, afferrano un ordine nella loro visione, lo restituiscono a noi che vogliamo sapere.
Eh sì, hanno “vent’anni in più le mie ragazze”, verrebbe voglia di cantare con Vecchioni, ma, stavolta, hanno vinto  a sogni e a emozioni.
     
 
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