Quasi un controcanto (senza polemica)

di Pippo Pappalardo

Cerco l’estate tutto l’anno/ ed all’improvviso eccola qua……

Amo l’estate come può amarla un geco, un bisognoso della luce, uno che se ne infischia del caldo e che non prova alcuna nostalgia della pioggia.
L’amo con quel sentimento di riconoscenza racchiuso in un proverbio della nostra isola ‘astati è ‘a madri de puvureddi” (la stagione estiva è la madre dei poveri).
Questa madre, oggi, m’invita a guardare la città che rallenta il suo battito ormai scandito solo dagli automezzi e mi sfida a trattenere l’immagine delle strade e dei quartieri pieni di quella luce che perennemente bisticcia con l’esposimetro dello strumento e del mio cervello.
Basterebbe andare al mare o salire in montagna e starei meglio, fisicamente meglio. Ma proprio lì non ho niente da cercare, non c’è nulla da scoprire, solo persone in fuga e qualche oretta corroborante che rapidamente svanisce.
Meglio allora rimanere, e guardarmi attorno, magari per scrutare per la millesima volta questo “paesaggio” che riconoscerei ad occhi chiusi.

E no, caro mio, non riconosceresti un bel niente; al più sapresti solo orizzontarti ma non ti accorgeresti di quante cose sono cambiate. Prova con la strada dove sei nato e vissuto.
La vicina di casa soffre della malattia Alzheimer, la sua casa è vuota e tu non sai neanche dov’è ricoverata; dalla sua abitazione non giungono rumori, odori, segnali di presenze, che solo per te erano divenuti storici; c’è solo il silenzio che non vuoi fotografare perché speri di vedere ritornare tutto come prima.
La vecchia carrozzeria si è trasferita in periferia poiché i vicini non gradivano i rumori e il puzzo delle vernici e tu non sai più dove chiedere, con un sorriso, un cacciavite o una lima.
Il grande ospizio dei vecchietti da tempo è vuoto e l’ombra dei grandi alberi, che chiamavi col nome dei castelli e dei vascelli della tua fantasia, non rinfresca i pochi vecchi che gli preferiscono l’aria condizionata del supermarket.
I rarii passanti, intanto, non si stupiscono del tuo treppiedi: pensano che sei un turista, un emigrante che vuole portarsi dietro un ricordo del quartiere, un geometra.
Nessun bimbo curioso t’importuna, nessuno si ferma a fare a domande. La strada, la piazza, la città è tua ma tu non sai interloquire. Non sai confrontarti con lei, non riesci a dialogare, non ne afferri le inquietanti presenze di cui hai scritto tanto in svariate circostanze.
La città è povera e tu non lo comprendi.
Ed allora? Dove sono i tuoi Atget, Strand, Ghirri e compagnia bella? Dov’è il magico momento che ti svela come questa città sia una tua creatura?

Al momento della prova tutto il tuo sproloquiare si è dileguato.
Una bella ragazza, intanto, esce da un portoncino, mi saluta confidenzialmente ma la mia risposta le fa comprendere che non l’ho riconosciuta.
”Sono una compagna di scuola di suo figlio”, mi spiega con un sorriso che radiografa tutta la mia vecchiaia. Poi, incuriosita, mi chiede il perché della presenza della mia apparecchiatura fotografica.
Ed io, di rimando, riprendo per filo e per segno, con tutta la passione che mi riscopro, i discorsi di questi anni, e ritrovo il bisogno di guardare la mia città, di restituirle quell’anima che avevo imprigionato, che non avevo provato a cercare dentro la luce misteriosa di una camera oscura, e che trovo finalmente in questa giornata d’estate, nelle note di questo” pomeriggio troppo lungo”, “forse dentro una fotografia, lontani dal mare, con solo un geranio ed un balcone”.
La fresca carezza di una domanda, a volte…..
Pippo Pappalardo