Per il ventiseiesimo anno?

di Pippo Pappalardo

Poi, arriverà il momento in cui ci allontaneremo dallo specchio d’acqua dei nostri venticinque anni, dentro il quale, da qualche mese, ci stiamo rimirando e, dentro il quale, diciamocelo pure, ci stiamo come degli innamorati: tutto è bello, tutto è gentile, soldi non ce n’è, la casa è stretta, i figli sono tanti, precauzioni non se ne prendono ma, cosa importa, tanto noi siamo felici; ci guardiamo indietro e, con disinvoltura (che è l’incoscienza degli innamorati), ci buttiamo un grande avvenire dietro le spalle.Invero, venticinque anni non sono stati il risultato di una moltiplicazione (quella, lasciamola a chi di miracoli s’intendeva) ma una più domestica addizione laddove, come canta il nostro amico Spampinato, “muddichedda supra muddichedda”, qualcuno ha saputo tirar  fuori una buona pagnotta anzi, per essere coerenti, “na bedda vastedda”.E vorrei continuare con questo richiamo fatto di acqua, farina, lievito e sudore perché mi piace pensare a quando il pane della visione acaffina  s’impastava tra una dozzina di appassionati di fotografia e, coraggiosamente, la proposta visiva della comune fatica, croccante e saporita, andava anche dentro le sedi sindacali o dentro le carceri; mi piace pensare a quando si cercava il confronto con il pane impastato dagli altri circoli o federazioni per capire cosa si poteva scambiare e cosa si poteva apprendere, senza presunzione e senza alcuna mosca al naso.
Venticinque anni fa gli strumenti della nostra passione erano veramente strumenti di lavoro e mai oggetti di vanità; venticinque anni fa si provinava a contatto per creare un archivio da mettere più velocemente a disposizione; venticinque anni fa festeggiavamo ancora i centocinquanta anni della fotografia sapendo che ogni giorno se ne producevano centinaia di milioni ma sapendo pure che, con un poco di attenzione in più dietro l’obiettivo, avremmo compreso qualcosa di meglio di quel mondo dentro ed attorno di noi.

La fotografia è arte? Lo domandavamo anche noi che avevamo visto Antonioni ed il suo “Blow-Up” e preferivamo inseguire la verità piuttosto che la bellezza o la bontà. Era ancora forte il mito del reporter ovvero di un moderno Prometeo capace di consegnare l’immagine vera alle onestissime aspirazioni degli uomini.
In questi venticinque anni la fotografia che intravedevano dentro l’obiettivo o che affiorava dentro le bacinelle ci si è rivelata sempre buona e, sempre onesta; solo quando la confrontavamo, allora, intuivamo che sopra quelle immagini si potevano posare riflessioni che, di volta in volta, prendevamo il nome di esami, giudizi, critiche, dubbi, perplessità, sorrisi di sufficienza, di derisione e, ogni tanto, apprezzamenti, congratulazioni, magari, sorprendenti stupori.
In venticinque anni, abbiamo capito che a queste “storielline dopolavoristiche” occorreva contrapporre una rigorosa proposta culturale nella quale riconoscersi singolarmente e come gruppo e, pertanto, occorreva attrezzarsi degli strumenti adatti a concludere (ammesso che si possa concludere mai) quella maturazione, teorica e pratica, che in tanti posti vediamo, ahimè, mancare (e pensiamo al mondo scolastico.)
Così, in questi venticinque anni, fare ritratti è stato guardare il Volto dell’Altro; e rappresentare “il Paesaggio” è stato ricognizione del territorio e dell’ambiente in cui viviamo almeno per dare concretezza al dettato costituzionale; fare Reportage è stato camminare nel mondo (che quando lo fai con gli occhi aperti è ancora l’atto più intriso di eticità di cui abbia esperienza) e denunciare ciò che vive e ciò che muore. E quando abbiamo chiesto al mondo di farci capire dove, come e quando si violava la dignità dell’esistenza umana noi, quelle fotografie che ci hanno mandato, le abbiamo conservato come testimonianza.

*

Son passati venticinque anni di “riflessione” e mi accorgo che questa è la parola giusta sulla quale appuntare quel che resta da fare.
Qualcuno chiederà “Perché, resta ancora qualcosa da fare?”
A mio avviso sì, e molto, anzi moltissimo.
I giovani che stanno frequentando l’ACAF ci dicono con forza che la poesia stenta ad affiorare. Che l’attenzione verso i sentimenti vive la tentazione della distrazione e dell’indifferenza. Che il nostro corpo sta diventando finto.  Che l’immagine alla quale fiduciosamente abbiamo consegnato nuove possibilità di comunicazione sta diventando ambigua, disonesta, forse anche cattiva.
Le nostre Acaffine rispondono riprendendo, allora, l’emozione di altre donne per mettere a fuoco questo disagio ed ogni loro risultato parla con forza e risoluzione;
I nostri Acaffini raccolgono i non luoghi delle nostre città cercando nuove luci per questo nuovo buio che ci circonda.
Insieme gli Acaffini hanno da tempo intuito che oltre il reale davanti ai nostri occhi, c’è un altro reale che intercettiamo al limite della sua percezione, della sua rivelazione, della sua coscienza, e che è possibile rappresentare per dare visibilità alle nuove pulsioni, alle nuove istanze, ai nuovi giorni; e, con l’aiuto di chi ci sta accanto e di chi ci presta ascolto, potere meglio definire per orientarci, per vedere meglio.
Andiamo verso il ventiseiesimo anno, quindi, con la convinzione che la fotografia oggi viva “in bilico tra la riaffermazione della propria natura documentaria ed il riconoscimento della sua impossibilità di essere ancora tale” (W. Guadagnini), ma insieme possiamo, anzi dobbiamo, attraversare questi confini, questi ossimori, recuperando alla dignità di un’immagine fissa il privilegio di poter divenire lo spazio della nuova riflessione che incredibilmente, proprio perché umana, passa ancora “per il nostro occhio, per il nostro cervello, per il nostro cuore” (H.C.B.).