TEMA: Come tradurre venticinque anni di vita associativa nel giusto rapporto tempo/diaframma

  di Pippo Pappalardo

Quante definizioni abbiamo dato al nostro “fotografare”? Troppe? Tante? Poche? Nessuna? Ne proverò ad aggiungerne un’altra per quest’anno nuovo che ci accingiamo a vivere insieme: la fotografia è per il/la fotografo/a l’ultimo attimo prima che scompaia la visione del reale e prima che appaia un’immagine di quanto abbiamo visto.
Quindi, c’è un prima del gesto fotografico che è l’attento scrutare lo spazio dei nostri giorni ed il tempo dei nostri pensieri. Quindi, c’è un dopo che non ci appartiene più perché, ormai, l’abbiamo dato a chi, nel nostro cuore, nei nostri desideri, nei nostri incontri, l’avevamo più o meno consapevolmente dedicato.Abbiamo imparato senza bisogno di maestri a fotografare il nostro amore e la nostra solitudine. Ora, nel gruppo sperimentiamo in amicizia che il sentimento può conservare il proprio pudore pur diventando arricchimento per chi ci sta accanto. Cos’è quest’arricchimento? Beh, potremmo rispondere che è informazione, conoscenza, cultura, e sarebbero delle giuste risposte. Nel gruppo, però, troviamo soprattutto l’ambizioso desiderio di sperimentare la ricerca della Verità, la scoperta del Buono, e, quando ci riusciamo (e adopero consapevolmente il plurale avendo verificato quanto sia difficile riuscirci da soli), coniugando Verità e Bontà, l’intercettazione della Bellezza.
In ACAF si stanno aggiungendo nuovi compagni di avventura e nuovi amici di poesia. Mi domando: sono curiosi di conoscere noi come persone che studiano ogni giorno come guardare meglio alla vita o sono desiderosi di starci accanto per capire come si guarda dentro un cilindro di vetro o sullo schermo di un PC?
Di primo acchito, sento già la risposta, l’una e l’altra cosa. Ed è vero: in via Pola siamo capaci di offrire l’una e l’alta cosa (ed altro ancora).
Ma noi quest’anno festeggiamo venticinque anni di vita associativa e, pertanto, i nuovi amici sentiranno spesso questo numero. Occorre dunque evitare di diventare noiosi senza perdere l’orgoglio della nostra identità.
Occorre, allora, semplicemente stare attenti a non confondere il tempo del ricordo con quello della memoria: ricordare è appunto il portare al cuore (ri-cordare), un sentimento quindi che possiamo vivere anche da soli; fare memoria, invece, significa essere presenti, quelli di venticinque anni fa e quelli dell’ultima ora, e possiamo vivere questa memoria solo stando insieme, riconoscendoci in questo tempo vissuto che vive ancora.
Come fotografi sperimentiamo esistenzialmente questa straordinaria vicenda poiché adoperiamo con intelligenza e con passione il nostro strumento per raccogliere il documento, per raccontarne il suo tempo, per trovargli una forma adeguata, per liberarlo, possibilmente, dentro una dimensione artistica. E tanto non ci basta ancora perché fuori dal gruppo ci sono le esperienze che vivono altri fotografi, di altri paesi e di altre generazioni, che hanno visto cose che noi dobbiamo ancora capire, che stanno guardando a cose che ci interessano, che hanno smesso di guardare a cose che noi non vedremo mai.
E così constatiamo che venticinque anni hanno la durata di un 125° di secondo rispetto al suo doppio; ma, per capirne il senso occorre valutare quanta luce dovremo far passare dentro il diaframma del nostro cervello; cosicché, mentre ci stiamo cimentando, ci accorgiamo di quanto amiamo questo mondo che ci circonda: lo amiamo il tempo esatto del riconoscimento di quest’amore (e che magari dura da venticinque anni).