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Discussione: Imparare da LAS VEGAS
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Imparare da LAS VEGAS 10 Anni, 6 Mesi fa Karma: 2  
Robert Venturi , Denise Scott Brown , Steven Izenour
Imparare da Las Vegas
Il simbolismo dimenticato della forma architettonica
A cura di Manuel Orazi
Traduzione di Maurizio Sabini



Riporto quanto approfondito da internet... spero di recuperare il testo!
in particolare quanto segue è integralmente tratto da: http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1918#.UlbDedJ11lA

«Per un architetto, imparare dal paesaggio circostante, è un modo di essere rivoluzionario... la creatività dipende dall'osservare ciò che ci circonda».

Quando questo libro venne pubblicato nel 1972 scatenò immediatamente un vero e proprio putiferio: che cosa mai si può imparare da Las Vegas, la valvola di sfogo organica al puritanesimo americano nonché il territorio legalizzato gestito per anni dalle peggiori mafie del paese tanto da suggestionare il cinema, da li padrino di Coppola a Casinò di Scorsese? Forse a giocare d'azzardo, frequentare prostitute e gigolò, a bere, mangiare e fumare smodatamente magari ascoltando canzonette come Viva Los Vegas di Elvis Presley, ovvero a soddisfare qualunque basso appetito in modo legale? Venturi, Scott Brown e Izenour decisero semplicemente di studiare da vicino una città che era cresciuta a una velocità mai vista prima nel bel mezzo del deserto del Mojave come una "città miraggio". I cartelloni pubblicitari illuminati dal neon e la sua bassissima densità urbana lasciavano immaginare che Las Vegas fosse il primo esemplare di città virtuale – specie di notte – tanto che Tom Wolfe, in uno dei suoi primi reportage, scrisse che «le insegne sono diventate l'architettura di Las Vegas» anticipando di fatto la teoria progettuale dei «decorateci shed» qui avanzata dalla coppia di Filadelfia. In realtà in pochi decenni la capitale del vizio, nota anche come Sin City, si trasformerà in una città molto più tradizionale circondata da campi da golf, ma questo studio resta paradigmatico perché gli autori hanno avuto il coraggio di guardare negli occhi il drago del capitalismo trionfante a scala urbana, gettando luce per la prima volta su alcune delle forze che sono alla base delle trasformazioni più dirompenti anche delle vecchie città europee, dallo sprawl al junkspace: l'uso di massa dell'automobile, della cartellonistica pubblicitaria a neon, l'uso commerciale di nuove tipologie architettoniche come il fast food, il drive in, lo shopping mall etc. Giancarlo De Carlo, con un intuito fuori dal comune, ha scritto poco prima della pubblicazione del libro che la scoperta di Las Vegas e la sua interpretazione in chiave pop sono due fatti che hanno «allargato lo spettro della comunicazione umana perché hanno introdotto nell'uso comune alcune forme di espressione che sino ad allora erano state considerate irrilevanti o addirittura esecrabili... La scoperta della trivialità, d'altra parte, rappresenta soprattutto un'ultima scrollata dissacrante al vecchio principio secondo il quale l'Arte è rappresentazione del Bello».



Approfondendo un po’, ecco alcuni pareri autorevoli sul libro e sull’argomento.


Las Vegas, la città del nulla è diventata un modello
Alessandra Iadicicco «La Stampa» 08-12-2010
Non simbolo del Kitsch, ma esempio per architetti e urbanisti: il libro che 40 anni fa fece discutere l'America.

C’è ancora tutto da Imparare da Las Vegas: oggi più che mai. Di fronte alle mille luci di città americane, alla crescita dirompente dei tessuti urbani, al restyling commerciale dei centri storici e allo spuntare come funghi di megalopoli orientali, torna buona la lezione che Robert Venturi e Denise Scott Brown vollero dare studiando sul campo – e cioè nel bel mezzo del deserto del Nevada – la città che in un battibaleno vi era sorta come un miraggio. Il viaggio studio da Yale a Las Vegas fu compiuto – dai due professori più una decina di studenti – nel 1968. Il libro formidabile che dà conto di quella ricerca uscì in prima edizione nel 1970 e con qualche variazione nel 1972. Quarant’anni fa si propose come una provocazione: la consapevole rottura di una tradizione o la presa d’atto di un’avvenuta rivoluzione. E scatenò immediatamente un putiferio.

Oggi, riproposto dalla casa editrice Quodlibet nella versione di Maurizio Sabini e per la cura eccellente di Manuel Orazi si rilegge come uno studio lungimirante, per certi versi addirittura antiveggente: sicuramente come un imprescindibile classico. Con la classicità, va detto, fecero sfacciatamente i conti gli architetti Venturi & Scott Brown – coniugi nella vita, complici nella ricerca – allorché, presentando per la prima volta il loro Learning from Las Vegas, proclamarono che studiare la forma della nuova città che stava emergendo negli Stati Uniti era importante per gli urbanisti quanto studiare i centri dell’Europa medievale, la polis greca o l’antica Roma. Menzionavano nei ringraziamenti Michelangelo, tenevano d’occhio come termine di confronto Vitruvio, prendevano a modello le cattedrali gotiche per ritrovarne i simboli sulle «cattedrali nel deserto» dei casinò.

Facevano perno sulla forma chiusa della piazza italiana – spazio definito da un reticolo di vie, commisurato su scala pedonale, proporzionato alla misura d’uomo – per mostrare quanto la strip commerciale potesse radicalmente scardinarla. Stava appunto a Las Vegas l’archetipo della cosiddetta «strip», sulla Route 66: una lunga strada rettilinea tempestata di cartelloni pubblicitari, insegne luminose, facciate il più possibile vistose di hotel e casinò ben visibili da chi, da grande distanza, a tutta velocità, le raggiungeva viaggiando in auto sulla highway. Niente più pedoni, stradine, spazi chiusi. A ben vedere neanche più architetture perché gli edifici che reggevano quegli apparati sfavillanti non sarebbero potuti essere più inappariscenti. Generici, ordinari. Sciatti. E piatti: «Perché le tecniche di vendita sconsigliano i secondi piani». L’atmosfera «è decisa dai watt». «L’insegna è visibile dall’autostrada prima del motel».

La prima struttura evidente era il parcheggio, «ampio, comodo, facilmente raggiungibile, di prestigio»: anch’esso un simbolo. E poi, del tempio del divertimento, l’oasi, il luogo di ristoro, spettacolo, shopping, anzitutto si vedono i falsi frontoni, gli elementi scultorei, l’ingresso ispirato d ogni epoca e stile: «Moresco e tudor quello dell’Aladdin», «San Pietro/Bernini e Yamasaki in linguaggio e scala, quello del Caesar Palace». Una maschera di facciata che, sul retro, nascondeva le lattine di birra arrugginite gettate a segnare il confine col deserto. A dare un ordine a quel caos galvanizzante, niente più che il ritmo dei grandi spazi che sfilavano da dietro i finestrini. A dare una direzione all’automobilista in corsa, la sequenza dei lampioni lungo il bordo strada. (…)


Editoria: notizie
Federico Novaro «L'indice dei libri del mese. Dicembre 2010» 01-12-2010
(…) inserirsi in uno spazio editoriale trascurato dall’editoria italiana, anche non specialistica, dove possa trovare spazio un racconto critico che sappia legare, e leggere, le varie scale dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio (…)

Imparare da Las Vegas, capitale dell'azzardo urbano
Manfredo di Robilant «Il Riformista» 10-12-2010
La traduzione italiana di Learning From Las Vegas, uno dei testi chiave nella storia dell’architettura degli ultimi quarant’anni, non dovrebbe essere un mero episodio di nicchia. Imparare da Las Vegas (Quodlibet-Abitare, a cura di Manuel Orazi) tratta infatti della forma più diffusa di paesaggio italiano del 2010, anche se è uscito in prima edizione nel 1972 ed è uno studio sulla capitale statunitense dell’azzardo compiuto da una coppia di architetti e docenti universitari di Filadelfia allora quarantenni, insieme con un gruppo di loro studenti dell’università di Yale.

Il paesaggio italiano di cui il testo nei fatti tratta sono le ex-campagne, le coste, le valli divorate dalla cementificazione capillare, atomizzata e generica della suburbanizzazione con i suoi capannoni e le sue villette, le sue insegne e le sue pubblicità, le sue rotatorie e i suoi svincoli. La cosiddetta città diffusa, fenomeno peraltro globale, trova la propria analisi originaria, più propositiva che spietata, nel libro firmato da Robert Venturi e Denise Scott Brown insieme con il loro collaboratore Steven Izenour.

L’obiettivo degli autori era studiare il simbolismo dimenticato della forma architettonica, come recita il sottotitolo della seconda edizione del 1977, decurtata nelle immagini per renderne il prezzo più accessibile.

Las Vegas ai loro occhi apparve come caso studio quasi obbligato, con la sua esplosione d’insegne luminose e cartelloni pubblicitari innestati su una città altrimenti del tutto anonima e cresciuta vorticosamente nel deserto del Nevada a ritmi inediti nella storia urbana. Date le condizioni del dibattito architettonico statunitense di fine anni sessanta già la scelta dell’oggetto garantiva lo scandalo. Pur ben presente negli immaginari collettivi, Las Vegas era ritenuta infatti dalle intellighenzie del tardo modernismo un argomento non parlabile attraverso i propri codici o gerghi. Lo stesso titolo suonava così come un ossimoro provocatorio. In un periodo in cui si cercava ancora di interrogare le parole e gli edifici dei mostri sacri dell’architettura moderna da poco scomparsi (Wright, le Corbusier, Mies van der Rohe, Gropius..), interrogare le statue kitsch dei centurioni a guardia del grande albergo Caesars Palace, un pastiche che voleva evocare l’impero romano, piuttosto che il cartellone dell’olio solare Tanya, con la sua modella in bikini, sembrava voler buttare via tutto.

Come tutti gli instant-classic Las Vegas è stato più evocato che letto. La grafica volutamente di pronto consumo e l’abbondante apparato iconografico hanno facilitato una lettura superficiale del libro, facendone una dispensa per generalizzazioni. Le più accreditate tra queste sono che l’architettura moderna sia inumana perché fondata solo sul valore d’uso e non su quello simbolico e che di fronte alla rapidità inedita dei processi contemporanei di crescita urbana il controllo razionale esercitato dalla pianificazione di città e territori appartenga a un passato dominato dalle ideologie. Ma la tesi di fondo di Venturi, Scott Brown e Izenour è che la progettazione dei paesaggi antropizzati debba partire dall’osservazione della realtà e non dalla pretesa di sostituirla. Ne discende che l’architetto non deve calare dall’alto del proprio sapere disciplinare soluzioni decise a priori ma deve invece calarsi nella realtà stessa, alla ricerca di un suo senso intellegibile anche all’abitante più distratto. In altre parole, l’architettura deve immergersi nella vita quotidiana, assumendone come tema pure gli aspetti che apparentemente deturperebbero una presunta purezza degli edifici, come appunto un’insegna luminosa su una facciata, piuttosto che un’antenna tv su un tetto. In questo senso Imparare da Las Vegas racconta come i paesaggi casuali e aggressivi della suburbanizzazione dilagante (negli Stati Uniti già negli anni sessanta) possano e debbano essere materia di progettazione. Riportata poi alla situazione attuale, in cui il modello della città diffusa si scontra con il contenimento dei consumi di suolo e di energia ancora prima che con la domanda di governarne le estetiche, la Las Vegas di Venturi e Scott Brown rischia di diventare addirittura nostalgica.

La post-città
Francesco Erbani «La Repubblica» 01-02-2011
Quando uscì, nel 1972, il libro Learning from Las Vegas(Imparare da Las Vegas" mise a soqquadro l'architettura. E non solo, abituati tutti a considerare con più patente disprezzo la giovane città americana cresciuta impetuosamente nel deserto fra alberghi e casinò. Che cosa si poteva mai imparare dal luogo delle crapule intorno ai tavoli da gioco, del divertimento pacchiano, del kitsch e dell'orrore architettonico? Dalla città che si forma senza piano, fatta di insegne luminose e cartelloni pubblicitari? Nulla. Ma non così per Denise Scott Brown, architetta e urbanista sudafricana, e pe rsuo marito Robert Venturi, architetto già affermato, allievo di Louis Kahn e autore, un paio di anni prima, di un testo molto fortunato, Complexity and Contradiction in Architecture (Venturi sarà poi vincitore del premio Pritzker nel '91). Learning from Las Vegas, scritto dalla Scott Brown, da Venturi e da Steven Izenour torna in una nuova edizione italiana pubblicata a cura di Quodlibet e della rivista Abitare (pagg. 230, euro 24). Ne parliamo con Scott Brown e Venturi.

Da allora sono trascorsi quarant'anni. Gli Stati Uniti el'Europa sono pieni di città che si disperdono casualmente nel territorio e che qualcosa, forse, hanno imparato da Las Vegas. Non è così?
«Noi suggerivamo che gli architetti potessero apprendere da questa città una lezione sul simbolismo, sulla capacità comunicativa dell'architettura e sull'uso della fantasia e della luce per creare strutture piacevoli che attirassero persone».

Ma la fine della città compatta, l'insorgere dello sprawl, la dispersione abitativa, sono o no ispirati a Las Vegas?
«No. Se le città in Italia, in Cina o India (sicuramente poche) assomigliano a Las Vegas è perché rispondono a condizioni sociali, economiche o naturali simili a quelle di Las Vegas. Tutte le città, anche quelle prodotto di un'espansione incontrollata, si sviluppano subendo l'influenza di questi fattori – il deserto a Las Vegas o un patrimonio culturale che conta migliaia di anni in Cina. E poi un'altra cosa: lo sprawl ha una forma, nonè il caos. Il caos è un ordine che non abbiamo ancora compreso».

Quanto è importante Las Vegas nella storia dell'urbanistica?
«Una delle lezioni della storia è che le lezioni della storia cambiano per ogni generazione. Tutte le generazioni trovano nel repertorio del passato quel che è importanteperloro. LasVegashamolto meno da mostrare rispetto alle città dell'Europa medievale o all'antica Roma. Ma fu di grande interesse per noi perché sembrava una città nella sua infanzia, i cui neon imponevano la loro luce nel deserto. Il ruolo del simbolismo in architettura ci ha ricondotti a Roma dove entrambi eravamo stati negli anni Cinquanta, ma con occhi diversi».

Quanto è cambiata Las Vegas da allora a oggi?
«Nel 1965 assistemmo all'espansione della Route 91, la Strip. Quella strada era l'apoteosi dei neon, archetipo del commercio suburbano le cui insegne policromatiche si innalzavano contro il cielo blu e deridevano i sogni degli architetti. "La odi o la ami?", ci chiedevamo l'un l'altro. Siamo tornati nel 1997. Gran parte dei neon erano scomparsi, sostituiti dall'illuminazione più soffusa Led, i piazzali pe ri parcheggi erano stati rimpiazzati con le scenografie di Disneyland. L'impianto comunicativo era stato risucchiato e la citta aveva poco da insegnarci. La Strip era diventata un elemento urbano convenzionale. Grandi alberghi avevano sostituito i parcheggi. La nuova Las Vegas, massificata a ritmi vertiginosi, era completamente differente dalla non-città degli anni Sessanta. E aveva un aspetto ottocentesco».

Anche Las Vegas si era normalizzata. Ma è possibile pensare che cartelloni pubblicitari e Insegne luminose siano più importanti di una piazza in cui la gente possa incontrarsi?
«A Los Angeles le persone guidano lungo autostrade costellate di cartelloni pubblicitari dirigendosi verso luoghi dove non ce ne sono e dove essi desiderano passeggiare. Perché dobbiamo scegliere tra cartelloni pubblicitari e luoghi di incontro? Perché non entrambi? Ogni cosa ha il suo ruolo e il concetto di incontro deve includere significati letterali e virtuali e diverse forme di comunicazione. L'architettura non può determinare l'incontro fra le persone, ma può rimuovere le barriere e rendere i suoi luoghi attraenti. Noi architetti dobbiamo capire le molte possibilità che ci sono di incontrarsi e mettere la nostra creatività e immaginazione per realizzarle».

Molti sostengono che la crescita casuale e l'assenza dl pianificazione mettano le città nelle mani degli speculatori facendole diventare sempre più private. Siete d'accordo?
«Lecittà prodotto dispeculazione possono essere rozze e grossolane. Ma noi architetti abbiamo una lunga esperienza di pianificazione urbanistica avvertita come prepotente, ossessivamente ordinanice, socialmente disastrosa e noiosa. Possiamo invece pensare a delle città in cui il disordine vitale porti bellezza. Nell'urbanistica di oggi sono necessari scambi fra pubblico e privato, connessioni che crescano dal di dentro e non imposte dall'alto e piani che siano densi di pensiero, complessi, democratici e realizzati con tocco leggero. Questo potrebbe richiedere diverse generazioni per realizzarsi. In una città del genere c'è abbastanza spazio per la volontà forte di grandi architetti? Certo, ne abbiamo bisogno, ma non devono comportarsi da bulli».

Las Vegas può essere modello della città del futuro?
«Con la parola modello si intende la base per prevedere il futuro della città o un paradigma da usare per un progetto? In entrambi i casi la risposta è no. Negli anni Sessanta noi vedemmo in Las Vegas un archetipo, non un prototipo. I fenomeni occorrevano lì in completa solitudine, non corrispondenti a modelli precedenti. Per noi non era né un kit di istruzioni per le città del futuro né un termine di paragone, ma un esempio che gettava luce su certi aspetti dell'urbanesimo. "Imparare da" e "imitare" sono concetti differenti».

UN SAGGIO E LE POLEMICHE Denise Scott Brown approdò a Las Vegas coi suoi studenti dell'Ucla nel 1965 e poi nel 1968, convincendo il marito Robert Venturi a seguirla. Learning from Las Vegas fu il frutto di quelle indagini. Il libro analizzava, senza scomunicarla, la malfamata città del vizio, «una città che spavaldamente sembrava fare a meno non solo degli architetti, ma dell'architettura in generale», scrive Manuel Orazi nella postfazione alla traduzione italiana. Las Vegas cresceva per accumulo di oggetti fastosi e improbabili che si accatastavano sui due lati della Route 91, frutto di speculazione sulle aree. Era l'esempio di come la funzionalità e la razionalità predicate dal movimento moderno potessero infrangersi contro l'irrompere di gusti e di consumi, contro la potenza del mercato. Il libro provocò molte reazioni e Scott Brown e Venturi vennero accusati di snobismo, di apologia del disordine, di giustificare e non solo di studiare.

Impara l'arte da Las Vegas e mettila da parte
Francesco Longo «Il Riformista» 08-02-2011
Se oggi un architetto proponesse di “imparare da Dubai” si solleverebbe un brusio, non sarebbe però uno scandalo. Nel 1972 invece, quando fu pubblicato il libro Learning from Las Vegas, il mondo degli architetti ne rimase sconvolto e la storia dell’architettura deviò il suo corso. Adesso che tutto ciò che c’era da apprendere da Las Vegas è patrimonio comune, viene proposto in Italia quel leggendario libro di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour Imparare da Las Vegas, edito dalla casa editrice Quodlibet e curato da Manuel Orazi.
Learning from Las Vegas è considerato la Bibbia dell’architettura postmoderna, il manifesto di una nuova generazione di architetti che voltava le spalle all’esperienza del Movimento Moderno, dava l’addio a Le Corbusier, a Mies van der Rohe e a Gropius e andava a passeggiare per la Strip di Las Vegas, cercando un modo inedito di concepire gli spazi urbani, le forme, e il linguaggio simbolico dell’architettura. Da allora, non c’è testo che si occupi di architettura, letteratura, filosofia o arte postmoderna che non si muova da quel libro cruciale. La provocazione dei tre autori rappresentò una sfida altissima e il loro lavoro ha lasciato un’eredità culturale incalcolabile. Las Vegas rappresentava allora il concentrato di disordine che ogni città cercava di esorcizzare. Era la città dell’eccesso, del peccato e della mafia, un caotico accumulo di casinò e hotel privo di un disegno complessivo, e assediato dal deserto del Mojave. Il vizio dilagava e gli edifici stessi sembravano incarnare l’unico valore di quell’inferno lampeggiante: il denaro. Cosa poteva mai venire di buono dall’epicentro dell’immoralità? Venturi, la Brown e Izenour volevano penetrare meglio e senza pregiudizi quel fenomeno di architettura euforica, e alla fine proposero un’analisi avalutativa del loro viaggio: «non è Las Vegas il soggetto del nostro libro, ma piuttosto il simbolismo della forma architettonica». Il loro scopo non era quello di cantare un elogio di Las Vegas, quanto quello di dare il giusto valore al simbolismo dell’architettura che lì si manifestava in tutta la sua potenza. In Imparare da Las Vegas motel, drive-in, distributori, le tipiche wedding chapels e le gigantesche illuminazioni vengono studiate e catalogate come «fenomeno di comunicazione architettonica». D’altra parte, che le città generino dei messaggi era una convinzione a cui era giunto già Roland Barthes, che scriveva: «La città è un discorso, e questo discorso è realmente un linguaggio», e dello stesso avviso erano d’altronde anche altri semiologi come Umberto Eco o Jurij Lotman. Nessuno però aveva dedicato uno studio sistematico alle forme vernacolari dell’architettura e aveva notato che sulle highway americane, gli enormi cartelloni pubblicitari erano intanto diventati l’architettura stessa del paesaggio. Per l’architettura della persuasione e del commercio, che richiamava l’occhio del guidatore, edifici e insegne coincidono, tanto che a Las Vegas «se si togliessero le insegne, non ci sarebbe più “luogo”».

La grande invenzione (involontaria) di Las Vegas, che ha reso il suo studio approfondito un testo seminale per il postmoderno, riguarda però certamente l’eclettismo degli stili fusi in questa città e la totale mancanza di gerarchia tra cultura alta ed estetica popolare. Colonne greche, neon ritorti, mosaici paleocristiani, lastre barocche, chioschi a forma di hamburger, statue greche, Bauhaus hawaiiano e scritte anni Trenta collassano tutti in un’unica cifra stilistica che frulla la storia dell’arte rendendola un’esperienza ludica, vertiginosa, priva di contesto e di differenze. Chi frequenta oggi Las Vegas sa bene che questa combinazione di stili prosegue radicalizzandosi: oggi piramidi egizie svettano accanto a gondole veneziane, e su Las Vegas Buolevard i colonnati romani affiancano esoticissime pagode. Questa combinazione di epoche e stili sarà precisamente il tratto che distinguerà, in letteratura, gli scrittori cosiddetti postmoderni. Così come avviene a Disneyland, infatti, anche nelle pagine degli scrittori postmoderni è impossibile segnare confini precisi tra le citazioni, tra le epoche, perché tutta la tradizione è riutilizzata liberamente all’interno di un testo.

Learning from Las Vegas provoca ancora oggi al lettore la sensazione di un viaggio in una macchina del tempo molto simile agli sbalzi temporali di cui si occupano i tre architetti. Gli autori hanno costruito infatti il libro con una serie di foto in cui si confrontano la cattedrale di Amiens e il Golden Nugget di Las Vegas, l’arco di Costantino a Roma e il motel Howard Johnson’s della Virginia: nelle pagine si va dall’antica Roma a Versailles in paragrafo. E non è un caso che nei ringraziamenti stiano insieme Michelangelo, i Manieristi inglesi e Frank Lloyd Wright.
Senza l’ironia giocosa e irriverente di Bob Venturi non ci sarebbe stata la magia visionaria di Frank Ghery e sarebbe difficile immaginare le utopie globali di Rem Koolhaas. Senza quel testo non avremmo interpretato fino in fondo i mondi letterari e allucinati di Thomas Pynchon, i “rumori bianchi” di Don DeLillo, i romanzi disorientanti e senza mappa in cui si muovono i personaggi di Tom Wolf, Donald Barthelme o James Ballard. Tutta l’opera di Bret Easton Ellis è legata alle highway e alle metropoli, fin dal memorabile incipit del suo primo romanzo,Meno di zero, che andava subito dritto al punto: «La gente ha paura di immettersi nel traffico di Los Angeles».
Learning From Las Vegas comparve in due edizioni diverse, la prima delle quali di grande formato. In Italia era stata stampato da Cluva editrice nel 1985 ma è rimasto per tutti questi anni un libro praticamente introvabile. Il curatore di questa nuova edizione (che ripropone la seconda edizione americana del volume), constata come ormai questo libro nel frattempo sia diventato un «vero e proprio classico della letteratura architettonica del Novecento».


Imparata la lezione di Las Vegas, per cercare oggi un’architettura che desti quel senso di sorpresa che quarant’anni fa destava lo Strip di Las Vegas bisogna certamente guardare alle metropoli orientali. Il kitsch e la grandiosità, la bizzarria e la monumentalità sono le parole d’ordine che fanno sviluppare Singapore, Dubai, Doha o Abu Dhabi. Gli architetti non smettono mai di dare lezioni alla fantasia e non smettono mai di imparare. Come dice Venturi: «noi architetti possiamo imparare da Roma, da Las Vegas, ma anche guardandoci attorno ovunque ci capiti di trovarci».

Rinascimento + Ruscha: rappresentare Las Vegas
Gabriele Mastrigli «Alias-il manifesto» 19-03-2011
In pieno ‘68 gli studenti Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour mappano la capitale al neon come modello «antimodernista» di architettura contemporanea: un paesaggio di simboli nello spazio come le antiche facciate a Roma e Firenze

Torna in libreria un classico ed è doveroso domandarsi perché. Nel caso di imparare da Las Vegas, uno dei più celebri «trattati» architettonici del secondo Novecento, si potrebbe aggirare il problema ricordandone l'assenza plundecennale dai cataloghi in lingua italiana, ancor più grave se messa a confronto con la fortuna critica del libro, tra i più controversi e citati della letteratura architettonica e urbana degli ultimi quarant'anni. Ma la nuova edizione del volume di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour che inaugura la nuova collana Quodlibet «Abitare» (a cura di Manuel Orazi, traduzione di Maurizio Sabini), prediligendo il testo al pur ricco regesto di immagini, ci consente di riprendere le fila di alcuni ragionamenti che pure girano intorno alla stessa domanda, oggi come allora: cosa c'è da imparare da Las Vegas?

Che Las Vegas fosse una scusa per affrontare uno spettro più ampio di questioni era già chiaro al gruppo di studenti di Yale che, nell'estate del 1968, muovono alla volta di quella sorta di miraggio urbano nel mezzo del deserto del Mojave, in Nevada, guidati dai loro professori. Robert Venturi e Denise Scott Brown, dal canto loro, avevano già ampiamente preparato il campo visitando la città diverse volte e soprattutto scrivendo qualche mese prima su «Architectural Forum» il celebre pezzo «Un significato per i parcheggi A&P, ovvero Imparare da Las Vegas», dall'incipit folgorante: «Imparare dal paesaggio esistente è, per un architetto, un modo di essere rivoluzionario». Si trattava in sostanza di guardare con occhi sgombri da pregiudizi alla rappresentazione dell'America più viziosa, ma vitale: quella dei casinò, dei motel, delle stazioni di servizio e soprattutto della strip più famosa degli Stati Uniti, spuntata dal nulla nel 1905 e, dopo la guerra, accreditatasi come il tempio nazionale del gioco d'azzardo e del divertimento «per adulti'. In sostanza la tesi della ricerca era di accettare la sfida dell'archetipo della strada commerciale, che a Las Vegas si presentava nella sua forma più pura, eretta nel deserto, cioè senza alcun sostrato storico e dunque apparentemente senza quei caratteri che fanno di un agglomerato edilizio una città.

Ma vi era di più. Nel sistema delle insegne, dei segnali lampeggianti, delle facciate luminose e colorate, il gruppo di Yale riconosceva i caratteri di un modo di intendere l'architettura «dimenticato» lungo tutta la stagione modernista: «un paesaggio di simboli nello spazio piuttosto che di forme nello spazio», una rivincita della dimensione iconografica contro le forme astratte e mute degli epigoni dello stile internazionale. Imparare da questo significava tornare indietro niente meno che alle facciate delle chiese gotiche, ma soprattutto alla Roma e alla Firenze rinascimentali, dove le facciate dei palazzi nobiliari potevano essere descritte come involucri decorati («decorated shed») ante litteram, ovvero strutture convenzionali, in grado di rispondere al meglio al programma funzionale, ma arricchite da un sistema di simboli che comunicano direttamente il loro significato e il loro scopo. «Il simbolismo dimenticato della forma architettonica» è infatti il sottotitolo che, dalla seconda edizione del libro (1977), chiarisce il vero obiettivo della ricerca. Allo stesso tempo, però, lo studio si spingeva oltre la semplice constatazione di questo peculiare fenomeno urbano, ponendosi il problema di come osservarlo.

Va da sé che la realtà americana a cui guardano Venturi e Scott Brown non è più quella del new deal, quella nitida e trasparente delle strutture in ferro e vetro di Mies e SOM della east coast, ritratta rigorosamente in bianco e nero nelle fotografie di Ezra Stoller; ma non è neppure quella concettuale, sofisticata e pop dei Warhol e degli Oldenburg che pure appartengono ai riferimenti di V&SB. È piuttosto quella popolare e «a bassa risoluzione» di Ed Ruscha, al quale fanno visita con gli studenti proprio durante la ricerca su Las Vegas, rimanendo influenzati dallo sguardo analitico dell'artista del Nebraska del quale «copiano», in particolare, la tecnica della famosa sequenza fotografica di Every building on the Sunset Strip. Come nel libro di Ruscha il paesaggio urbano di Los Angeles era ridotto a una piatta sequenza lineare di facciate anonime, senza gerarchia e senza criteri di selezione – se non quello di inserirle tutte –, così in Imparare da Las Vegas la città è descritta per lo più attraverso un’accumulazione di rappresentazioni bidimensionali: schemi, diagrammi e tabelle che catalogano i nuovi materiali della città e ne mappano l’impatto sulla costruzione dello spazio urbano.

E qui si arriva al punto. Annullata tanto dalla messe di segnali e insegne luminose che dalla castità delle strade carrabili e dei grandi parcheggi di servizio, a Las Vegas ciò che va in crisi è proprio la categoria dello spazio. L'ineffabile «dio» dell'architettura moderna, la sostanza «progettata dagli architetti e deificata dai critici» per riempire quel vuoto creato dalla rimozione degli apparati simbolici, a Las Vegas non ha più ragione di essere. Nel paesaggio urbano percorso in automobile a 100 Km/h lo spazio non è più una dimensione operabile del progetto architettonico; «qui una sola immagine vale quanto un migliaio di forme». E oggi che possiamo leggere queste pagine nella giusta prospettiva storica, il dispositivo analitico «Imparare da Las Vegas suona tutto come un de profundis delle ultime speranze «riformiste» che ancora covavano in seno agli ultimi epigoni del modernismo ufficiale, forse persino al di là delle aspettative e degli obiettivi della coppia di architetti di Philadephia.

Se infatti da un lato Imparare da Las Vegas prosegue nel solco della critica all'esausto funzionalismo della tarda modernità lanciata da Robert Venturi qualche anno prima con il suo «Complessità e contraddizioni nell'architettura», dall'altro introduce un ingrediente decisivo che manda in panne la macchina architettonica: la città. E questo, a ben vedere, succede da sempre, giacché la spazializzazione dei sistemi di relazione urbani nella storia delle città si misura con dispositivi che vanno verso la progressiva smaterializzazione dei loro limiti fisici, costringendo a ripensare il significato stesso dei manufatti e dunque il loro ruolo: all’inizio i nuclei urbani erano definiti da mura di cinta e da strutture fortitificate, in seguito da strade e piazze, quindi da strutture sempre più aperte sino allo sprawl e allo spazio di percorrenza delle automobili, delimitato da linee bianche a terra punteggiato da segnaletica bidimensionale.

Proiettato all'oggi, questo progressivo, incessante primato dei sistemi di comunicazione nello spazio rivela la dimensione sempre più residuale, immateriale, virtuale dello spazio stesso, che tuttora è la cifra della città contemporanea, particolarmente quella in cui la modernizzazione è più spinta. Per questo tutti quei caratteri di Las Vegas che potrebbero essere inscritti nell'immaginario postmoderno, non vanno visti come effetti collaterali della modernizzazione, ma la loro lineare, inevitabile conseguenza. Tutto questo ha in Las Vegas il suo archetipo – sia chiaro, la Las Vegas degli anni settanta, molto diversa da quella odierna, come spiegano gli stessi Venturi e Scott Brown nella postfazione di questa edizione –, giacché, come aveva sintetizzato perfettamente Tom Wolfe, «Las Vegas è la sola città al mondo il cui profilo non è fatto di edifici, come New York, nè da albri, come a Wilbraham, Massachussets, ma da insegne».

La serialità estetica che plasma l'immaginario
Vanni Codeluppi «Il manifesto» 15-07-2011
...Il pop ha contaminato anche l'architettura, un fatto evidente già quarant'anni fa, quando Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour scrissero il loro celebre Imparare da Las Vegas. La nuova edizione italiana del libro (Quodlibet, pp. 232, euro 24), riveduta e ampliata rispetto alla precedente, ribadisce in pieno la validità dell'intuizione alla base di quel saggio: l'importanza, cioè, del ruolo svolto dalla dimensione simbolica all'interno della forma architettonica. Così come è rimasta valida l'applicazione alla realtà urbana e sociale del metodo di analisi che Venturi, Scott Brown e Izenour hanno fornito, sulla base dello strutturalismo linguistico. È stato del resto lo strutturalismo ad attribuire per la prima volta un riconoscimento alla centralità del simbolico nella cultura sociale e dunque a offrirci gli strumenti interpretativi per leggere meglio la realtà che ci circonda. Strumenti che sembrano oggi dimenticati, ma che conservano la loro efficacia e si possono applicare anche a un altro tratto fondamentale dell'estetica pop: l'importanza attribuita al linguaggio visivo.
Orientata com'è verso la cultura dell'istantaneità, così determinante per il mondo del consumo, dominato dalla capacità di sintesi del linguaggio pubblicitario, l'estetica pop preferisce infatti comunicare per fenomeni visivi immediati - per icone, insomma.

Postmoderno, la missione non è finita
Stefano Bucci «Corriere della Sera» 16-09-2011
...Un intreccio inebriante tra arte (strettissimo il legame con Arte Povera e Transavanguardia), architettura, design, cinema, musica, moda, industria nel segno di nomi come Bob Venturi (suo il saggio simbolo Imparare da Las Vegas recentemente ripubblicato in Italia da Quodlibet), Philip Johnson, Rauschenberg, Jeff Koons, Jenny Holzer, David Byrne, James Stirling, Hans Hollein, Richard Maier, Ron Arad, Arata Isozaki, Karol Armitage, Derek Jarman. Oltre a quello degli storici gruppi di Alchimia, Memphis, Archizoom.

La rivincita del kitsch
redazionale «Wired» 07-10-2011
Venturi, Scott Brown e i loro studenti hanno riversato la loro passione per l'architettura svergognatamente commerciale di Las Vegas in un libro, l'intramontabile Imparare da Las Vegas(edito in Italia da Quodlibet), ancora oggi considerato l'Antico Testamento del Postmodernismo.

Così la luce manipola il cibo: l'emozione del supermercato
Francesco Longo «La Lettura - Corriere della Sera» 03-02-2013
Quando negli anni Settanta l'architetto Robert Venturi pubblicòImparare da Las Vegas (Quodlibet), fu il primo a scoprire il nesso tra architettura e commercio. Fu una rivoluzione. Venturi parlava di una «architettura della persuasione». A spasso tra i sinuosi neon di Las Vegas, scrisse: «A volte l'edificio è l'insegna stessa», e concluse:«Se si togliessero le insegne non ci sarebbe più "luogo"».

Architetture ordinarie
Maurizio Giufrè «il manifesto» 27-09-2013
In Learning from Las Vegas (1972; Imparare da Las Vegas, Quodlibet, 2010) la critica all'architettura dell'International Style pone al centro della svolta l'ambiguo richiamo ai desideri e ai gusti della gente. Le immagini del consumo di massa formate da hotel, casinò, centri commerciali e stazioni di servizio, con le loro spettacolari insegne e stravaganti decorazioni, hanno in Las Vegas il luogo ideale di verifica delle potenzialità espressive delle forme edulcorate, banali e kitsch del mercato. La riflessione venturiana si misura con i simboli e le metafore dell'«ordinario» che «eroicizzato» intende porsi come alternativa al formalismo retorico della modernità.
 
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Ultima Modifica: 2013/10/10 17:15 Da alb.o.
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