La voglia di voler tutto classificare, etichettare, confinare, magari con definizioni più degne di finire in un dizionario piuttosto che in una storia della fotografia, ha spinto in questi ultimi decenni a guardare con attenzione verso nuova tematiche fotografiche che sono state perseguite e sondate, sotto molteplici aspetti, dal mondo professionale e no.
Tra queste, la cd. “Fotografia Urbex” laddove l’analisi del paesaggio urbano, quasi sempre raccolto tra i reperti di edifici abbandonati o dimenticati, incontra inevitabilmente la riflessione sul tempo passato, nonché gli echi delle rimemorazioni di esperienze che avevamo dimenticato, oppure il cosciente rinvenimento di oggetti, di sensazioni obliate e felicemente riemerse. Contestualmente il “fotografo urbex”, nel mentre riprende, analizza e riflette sul perché dell’abbandono, del distacco. A volte sembra che voglia risuscitare fantasmi sepolti, oppure volere dare corpo a sospiri di voci lontane. A volte pare che voglia catturare l’ultimo riflesso di vitalità.
Sembra di tornare a certe giornate che precedevano la villeggiatura, quando ci sembrava di ritrovare, riconoscendola, la vecchia casa della vacanza; ed ognuno di noi rivedeva il proprio angolino, riprendeva le vecchie confidenze con le care cose di cattivo gusto, ritrovava piccole esperienze che sembrava chiedessero cosa avessimo fatto nel tempo del distacco.
Spesso il “fotografo urbex” prova, infatti, a dare vitalità al reperto incontrato; spesso suggerisce una sua nuova utilizzazione; spesso ammira, contempla, quel grande architetto che è il tempo.
E tanta analisi si presta anche alla tentazione di voler misurare il tempo: ed allora si cerca un calendario, un graffito, un oggetto datato. Talvolta ci si domanda sulla storia, sulla personalità di coloro che vissero in quegli edifici.
Nel tempo, abbiamo avuto ricognizioni di cinema abbandonati, di teatri, di sale da ballo, di ristoranti, di case di tolleranza, di manicomi, di carceri, di scuole, di cliniche, addirittura cimiteri, interi borghi, interi paesi.
Il fotografo urbex non intende “fare storia”, né interrogarsi sulle tecniche edilizie adoperate o cose del genere. Il suo atteggiamento è quello di colui che avendo trovato, in un cassetto, un nastro dimenticato vuole riascoltarlo e da quel momento sente e ascolta una storia, un sogno, un incubo, una fiaba. Fate voi.
Non dimentichiamoci che spesso tali luoghi seppur abbandonati sono pur sempre luoghi privati e come tali vanno rispettati: pare che il segreto stia nel non lasciare traccia della nostra visione.
I nostri amici hanno, anche loro, trovato le registrazioni di un tempo sospeso, interrotto, dimenticato e hanno messo insieme le immagini che riflettono le loro considerazioni.
C’è nella proposta il senso dell’avventura, della scoperta: le fotografie trasmettono lo stupore ingenuo ma sincero per la constatazione di un “teatro della memoria” dentro il quale lo strumento fotografico recita a soggetto un copione scritto con ricordi, agnizioni, domande e perché.
Un’avventura dell’occhio e dello spirito che i nostri amici hanno confezionato rendendola concreta espressione didattica e didascalica delle potenziali risorse dello strumento fotografico nonché dell’importanza di condividere, nel gruppo ed in gruppo, i risultati dell’impresa. Complimenti.
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