Dal diario di Pippo (pensando a Salvo, a Giulia, al papà di Irene)
Scorro le pagine di questi strani giorni.
Leggo note facete, considerazioni che avrebbero bisogno di un riscontro o di una verifica, qualche intercalare commosso, magari una certa ansia; poi, leggo tanto bisogno di ascoltare e vedere; quindi, tanto bisogno di sentirmi parte di un sistema, di avvertirmi in una relazione, in un insieme, in un convivium che ancora mi accetta per quello che sono con i miei anni, la mia salute, le mie tante contraddizioni.
Esaurita questa lettura alquanto egocentrica e, magari, sospetta di una certa autoreferenzialità, doverosamente annoto che, in questi nostri appuntamenti, con passo felpato ma deciso, si è intrufolata “sorella morte”.
Non aveva le fattezze, i connotati, il sembiante di quando ci accorgiamo che le pile del nostro strumento fotografico sono scariche; né quelle della delusione per lo scatto irrepetibile, rivelatosi, ahimè, sfocato; né della stizza provata verso il soggetto che si è mosso all’improvviso sottraendosi ai nostri occhi.
Niente di tutto questo. Stavolta, più o meno annunciata, aveva il volto dell’assenza drammatica, della scomparsa tout court. Il volto di chi prova, freddamente, a spezzare quella relazione, quel convivio di cui vi parlavo. Il volto, insomma, dì chi, di qualcosa, che sembra rendere vano, inutile, ogni desiderio, ogni sforzo di voler ascoltare ancora, di voler vedere ancora. Di sopravvivere.
Dei miei genitori cercai a lungo l’odore rimasto nei cassetti, i capelli bianchi impigliati tra le spazzole nel bagno; poi, non cercai più nulla.
Tra le espressioni di cordoglio fatte pervenire alla famiglia Ragusa ho aggiunto: ”il ricordo si farà immagine e l’immagine ci restituirà la memoria”.
Non è l’invenzione elegante di una frase di circostanza; è una mia profonda convinzione; qualcosa che ho sempre sperimentato, vissuto, spesso condiviso.
Sappiamo, infatti, che il ricordo anche se apparentemente banale, a livello degli occhi, della mente, del cuore, si formula e si struttura come un’immagine che noi vediamo, leggiamo, viviamo. Il risultato è memoria dentro cui la presenza cresce ancora, l’emozione è sempre viva, le domande ci accompagnano come fossero risposte.
Provo a spiegarmi con una fotografia che Giovanna realizzò per un contest a tema “finestre” e che io, invece, ho trattenuto nella personale antologia sul “paesaggio”.
In questo scatto, vedevo un ambiente domestico, anche un po’ rustico, che si apre verso il panorama antistante grazie all’apertura di una porta finestra che inquadra il tempo e lo spazio del paesaggio siciliano.
Analizzando l’immagine mi accorsi, però, di un cavo (elettrico? televisivo?) che attraversava il terrazzo e, “idealmente”, sembrava congiungersi con la traccia di un sentiero nel vallone sottostante.
Né Salvo né Giovanna si erano accorti di questo magico risultato indiretto, inconscio, non premeditato. Tra i due ci fu un moto di sorpresa e di soddisfazione; e lo scambio di un sorriso ineffabile mi avvertì che ero entrato in un microcosmo tutto loro, assai diverso dalla mia prima lettura dell’immagine.
Ora, adesso, rileggo quella fotografia e mi soffermo su quel modesto cavo, e mi chiedo l’apparente misteriosa ragione della sua presenza. E’ un cavo di collegamento? di segnale? E’ un legame, un’arteria, una corda, un filo di lana, una traccia, una strada, una catena, una cicatrice, una ruga?
Capite, allora, come l’immagine mi stia restituendo la memoria del ricordo.
E tu, Salvo, dove sei? Sei dietro l’emozione visiva di Giovanna o attendi le nostre emozioni sulla linea dell’orizzonte?
Mentre scrivo, mi piace pensare che quel filo sia la “lazzata” con la quale hai lanciato il “tuppettero” della vita al tuo nipotino, ai tuoi, a tutti noi.
Con “questa” memoria, infatti, vedo qualcosa che girerà sempre; vedo perfino il sorriso di un saluto.