Pippo Barbagiovanni ovvero un “fotografo fotografo”, e, quindi, qualcuno che sa adoperare lo strumento della comune passione con perizia e capacità assoluta e che ha trasformato tutto questo in professionalità, proposta di vita, consapevole gesto esistenziale, riconoscimento di quanto sia importante documentare, rappresentare le proprie idee e quelle degli altri.
Proprio così, e ieri sera in un paio di ore, dense e fitte, ce lo ha raccontato con foga, competenza, passione e orgoglio.
L’orgoglio di chi è rimasto fedele alla propria vocazione, alla propria ambizione, ai propri sogni.
L’orgoglio di chi è rimasto legato visceralmente alla propria terra nella certezza che questa avrebbe, prima o poi, corrisposto il suo sentimento.
L’orgoglio di chi sa di aver reso partecipi di questa sua vocazione uno stuolo di amici (storici, magistrati, scienziati, curiosi) che oggi guardano con riconoscenza al suo lavoro.
E non ci sono solo i reperti archeologici, le ricerche e le scoperte del suo obiettivo a dirci quanto è bella la nostra terra: ci sono pure gli scempi e i delitti, le delusioni e le vanità.
Perché Pippo è un “fotografo fotografo” eticamente corretto.
E, poi, perché Pippo non è più il giovane fotografo che, in pantaloncini corti, e Leica in mano ci stupiva per una sapienza tecnica quasi spontanea, innata.
Oggi è il padre di famiglia che guarda allo strumento ormai del figlio, che guarda con prudenza all’elicottero che dovrà guidare, che piange per la scomparsa di coloro con cui per tanto tempo insieme ha lavorato.
Scorrono le immagini del tempo della pellicola, incrociando la digitalità odierna; ma il senso del suo lavoro - storico, scientifico, ancorché commissionato - è sotto gli occhi dei presenti.
L’esposizione del nostro Pippo, intanto, si fa precisa, minuziosa e dolce come le antiche tradizioni della sua famiglia.
Ed a renderla più dolce c’è il richiamo ai suoi compagni di avventura e di poesia: ci sono anch’io in questo nobile consesso e ne sono orgoglioso. Per lui, per me.
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