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Re:"il Ritratto di una Maschera" (1 in linea) (1) Visitatore
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Discussione: Re:"il Ritratto di una Maschera"
#6964
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"il Ritratto di una Maschera" 11 Anni, 11 Mesi fa Karma: 2  
"il Ritratto di una Maschera"

Partendo da considerazioni sul ritratto sagge e ragionevoli (come sempre) del nostro Emanuele, facilmente rintracciabili sul sito mi piacerebbe condividere insieme a Voi alcune mie riflessioni, proprio nell'ottica di sperimentare UN percorso critico che possa guidarci verso quell'andare oltre di cui abbiamo discusso (e per la verità stiamo discutendo) su altro forum.
https://www.acaf.it/new/index.php?option=com_content&task=view&id=289&Itemid=23 https://www.acaf.it/new/index.php?option=com_fireboard&Itemid=2&func=view&id=6931&catid=8

Vi invito a rileggere "il ritratto" di Emanuele, da cui riporto un passo, come punto di partenza delle mie riflessioni di cui sopra.

"(...) Infine immaginate un bel ritratto di voi stessi, quello in cui apparite nel vostro splendore fisico, intellettuale, psicologico e affettivo. Non è forse il ritratto che tutti vorremmo avere fatto, nel fondo del nostro ego? La conferma di noi quali noi ci sentiamo da dentro e vorremmo apparire/essere riconosciuti dagli altri.
Il foto-ritratto è in fondo l'espressione del conflitto profondo tra il se sentito e ciò che appare. Col mezzo fotografico maggiormente che con altri si evidenzia il conflitto  più profondo del dualismo essere/apparire. "Davanti all'obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede che io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte" così Roland Barthes. Ma sono anche la paura di ciò che si vedrà in quella fotografia, il confronto tra come mi vedo e come mi vedono gli altri, il timore di come il fotografo mi farà apparire. Già, il fotografo. Qual'è il suo ruolo in tutto questo tramestio psicologico del soggetto fotografato? Deve certo mettere quest'ultimo a suo agio, deve dar prova della sua arte, deve saper interpretare la psicologia del soggetto, fare un'analisi psicologica e trasferirla nell'immagine, deve soprattutto avere la pazienza, il tempo, la volontà di andare oltre uno scatto e via. Deve cercare di parlare, capire, immaginare, valutare...
Bello a questo proposito un passaggio di HBC, in cui narra il suo modo di fare un ritratto: “Più di tutto,io cerco un silenzio interiore. Cerco di tradurre la personalità e non una sua sola espressione…Se realizzando un ritratto, speriamo di cogliere il silenzio interiore di una vittima consenziente, è molto difficile introdurle tra la camicia e la pelle un apparecchio fotografico (...)”.



Se penso al ritratto mi passano per la mente alcune parole chiave: espressività, sincerità, personalità, essere, anima, essenza...

Mi chiedo allora cosa succederebbe se volessi ritrarre una maschera?
In fondo come ben spiega Emanuele ci sono altre parole chiave che possono essere associate al ritratto: inespressivo, ambiguità, impersonalità, apparenza, inganno, tranello, caricatura.
Come fare a ritrarre una maschera? Quali sono le caratteristiche principali di una maschera? Può questo quesito aprire un "modo" diverso di intendere il ritratto?

Cercare il ritratto di una persona vuole certamente dire dialogare con al sua anima, trovare la migliore espressione, tutto ciò espresso da Emanuele, e tanto ancora di più. Ritrarre una maschera cambia completamente il punto di vista, occorre trovare la negazione dell'essere, occorre riconoscere ciò che non è espressivo e/o capire in prima analisi cos'è l'espressività dell'inespressivo e successivamente trovare il "modo" di esprimerlo! Resta però un ritratto ed apre la via ad un modo diverso! Ecco allora che improvvisamente si mette in discussione il "come" ma anche (stranamente?) il "cosa"! Io trovo questo procedimento affascinante. Per me questo è progetto (una parte del progetto per la verità), ma di questo spero di potervi parlare un po' più avanti in maniera più diffusa e completa!

Beh! Intanto anticipo che "il ritratto di una maschera" è un progetto su cui sto lavorando, sul quale mi sono fatto tante domande, sul quale ho cercato ed approfondito quali sono le caratteristiche di una maschera ed appreso il suo significato. Il lavoro non è ancora finito, ma ritengo sia a buon punto! Pertanto ogni consiglio, considerazione od ulteriore spunto di riflessione è ben accetto!

Notte Alberto…


FEDERIIIIIIICOOOOOOOOO!!!!! andiamo a dormire!!!!!!!!!! (?)
 
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Ultima Modifica: 2012/05/22 10:18 Da alb.o.
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#6965
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Re:"il Ritratto di una Maschera" 11 Anni, 11 Mesi fa Karma: 2  
...riuscirò a caricare queste immagini???
provo, ma con scarsi risultati!!!


 
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#6966
PipPap (Utente)
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Re:"il Ritratto di una Maschera" 11 Anni, 11 Mesi fa Karma: 9  
Un modesto contributo al dibattito.
Tra analitici e continentali, vi prego, restate ACAFFINI (un consiglio ed un indovinello)




Intorno al ritratto fotografico

Io e l’altro
Gli antichi miti - da I dialoghi di Platone a Le Metamorfosi di Ovidio - ci confermano che la percezione della nostra intimità, all’inizio, è all’esterno di noi.
Ci sentiamo e ci vediamo, dapprima, come altro da noi, come proiezione, come alterità.
Altra antica letteratura ci parla, inoltre, dello scandalo della condizione umana, quasi una posizione intermedia tra la bestia e l’angelo, tra l’unità col divino e l’esilio.
Sembra, quasi, che la stessa cultura umana non possa fondarsi che sul ricordo di una scissione, per procedere eternamente verso un’impossibile riunificazione.
Il ritratto fotografico è, in tal senso, solo il più recente protagonista di questo processo rappresentativo.
Altre esperienze, frattanto, sono sopraggiunte ed un attento studioso come Claudio Marra le va individuando nella realtà virtuale, nella bioingegneria, nella clonazione e negli interventi di chirurgia plastica sul nostro volto. Sembra che tali accadimenti sorgano apposta per spiazzare le nostre vecchie convinzioni: quale ingenuità esprimiamo? i segni e le espressioni del nostro volto sono maschere o segnali di allarme? cosa pretendiamo dal nostro volto come da ogni volto umano?
Riappare, qua e là, il mito di Faust e si riaffaccia Oscar Wilde con il suo Ritratto di Dorian Gray.
E dire che ci sembrava di avere in mano la soluzione di tutto; infatti, a differenza delle altre arti visive o delle altre modalità di rappresentazione, solo all’attenzione del fotografo, e quindi alla sua scelta, seguiva la cattura dell’immagine ed il suo definitivo possesso. Con l’immagine percepita e raccolta si possedeva l’idea dell’altro e su questa idea si faceva memoria. Il doppio, quindi, si riunificava. Il vecchio mito svelava e realizzava il desiderio di stare concretamente tra gli uomini.
Nadar capì tutto: pochi prima di lui ma, per fortuna, tanti dopo di lui.
L’attenzione all’altro, alla sua vita, alla sua esistenza passò allora attraverso la lente di un obiettivo e, finalmente, l’esperienza dell’incontro e della comunione, ebbe la possibilità di essere replicata, rivista a proprio piacimento, per poter poi essere giudicata con diverso sentimento e ponderatezza.
In tanti, su questa meravigliosa possibilità (che Sciascia, proprio per il ritratto fotografico, riportò al concetto di entelechia mutuandolo da Aristotele, da Dante, da Goethe, fino a Valery) si sono incontrati e scontrati, fondendo il sublime con il banale ma sempre evolvendo dallo stato di attenzione a quello di comunione.
Perché, infatti, il flou della Cameron, gli effetti di Steichen, le invenzioni di Avedon, i contrappunti di Newmann?
Proprio perché si realizzava così, e si realizza ancora, il legittimo desiderio di mettere al centro del reale la presenza straordinaria dell’esistenza umana la cui finitezza pretende con umiltà e coraggio di diventare cifra di ogni scoperta ed invenzione.
La “fatale invenzione” continua così a riversarsi nel ritratto e “ci consente di superare quel distoglimento dello sguardo dagli altri che corrisponde un po’ al disinteresse ed alla paura, e ci permette di guardare agli altri a lungo ed attentamente da tentare di cogliere l’essenza. Un’essenza che affiora dal profondo: solo ciò che è profondo affiora (D. Mormorio)”.

Nulla interessa all’uomo più dell’uomo.

Conseguentemente c’è sempre un volto che cerchiamo con determinazione. C’è sempre un ritratto che intendiamo costruire così come si costruisce una casa, come si pianta un giardino. Un volto che abbiamo voluto, quasi preteso, dentro il nostro obiettivo, per poi conservarlo tra le cose più care, magari ritornandoci sopra in muto colloquio.
Sarebbe facile aggiungere che questo volto altro non è che l’oggetto dei nostri desideri, oppure l’ancora che ci trattiene e preserva dalla vaga ed indeterminata visione, oppure, ancora, l’espressione dei nostri dubbi, delle nostre ansie o disperazioni.
Se questo fosse vero dovremmo, però, spiegarci come mai ignote creature, che si sono prestate per una volta a posare durante un’esercitazione fotografica, alla fine si siano risolte nella rappresentazione delle nostre sensazioni e delle nostre pulsioni più intime.
Cosa abbiamo letto, nei loro occhi o nelle loro rughe, tra i capelli, od attraverso il fumo e le ombre della sera? E da quando abbiamo cominciato a connotare così bene le nostre fotografie da trasmettere un intimo pensiero semplicemente fotografando un signore incontrato per caso? O quando abbiamo smesso di farlo (se mai abbiamo smesso)?
Invero, proprio la “messa in posa” svela, più o meno chiaramente, le nostre reali intenzioni. A volte, invece, proprio la posa sembra sorprenderci. Mortificare la spontaneità d’un gesto, un baleno d’espressività, ci costringe, infatti, a verificare cosa intendevamo costruire con la posa richiesta (atteso che siamo fotografi e non scenografi di fisionomie).
Il ritratto fotografico, allora, ci riconduce all’eterno problema: se sia giusto lavorare come replicanti del reale o se occorra, invece, sorprendere il reale per farci dallo stesso trascinare in un’altra dimensione dove fare documento e fare poesia è quantomeno un dato di partenza.
Invero tute le volte che siamo di fronte ad un ritratto, siamo sorpresi da un profondo desiderio di “bellezza come splendore del vero (Platone)”, una costante tensione verso l’altro, verso il suo volto e, nello stesso tempo, l’interrogativo rivolto, all’altro ed a noi stessi, come vocazione tutta fotografica ad utilizzare l’immagine per formulare possibili rapporti, relazioni, scambi che oltre alla parola, consentano altro contatto più diretto e sicuramente più coinvolgente.
La ricerca di questa bellezza, in tal senso, appare centrale per capire ogni ritratto. Quasi un valore etico, ricercato ed ottenuto nella libertà dell’arte, per ribattere alle pulsioni negative che traspaiono dalla nostra paura di morte, dalle nostre depressioni, dalle nostre viltà. E le diverse forme adottate ed i differenti stili, rispecchiano il diverso modo di penetrare dentro il mondo di chi ci sta accanto; spiegano le diverse capacità di percepire il vero significato d’uno sguardo, l’autentica tipicità d’un carattere, la relazione tra la persona umana e l’ambiente, la sincerità del rapporto tra fotografo e fotografato.
E, poi, c’è anche la scoperta, tutta da studiare e da capire, di chi spinge verso il “maltrattamento” del ritratto, verso la sua dissacrazione, profanazione, quasi un’iconoclastia della bellezza trovata o intuita. Spesso qualcuno, con molta schiettezza, ci ha chiesto se da qualche parte, in qualche ritratto, avesse fatto capolino l’anima.
Non è questa la sede per tentare delle risposte. Queste domande e queste esperienze, però, non devono apparire delle “velleità fotoamatoriali”.
Proprio in queste domande sta la possibile spiegazione d’una certa crisi del linguaggio fotografico finora maturatosi attorno all’estetica del ritratto. Avvertiva Renzo Chini che “il ritratto è sempre psicologico altrimenti la figura umana verrebbe ridotta al rango della rappresentazione d’una bottiglia”.
Come non concordare. Eppure i fotografi rifuggono dalla tentazione di far diventare i loro soggetti dei veri e propri personaggi e, se diventano tali, non sempre sono la struttura predominate della loro raffigurazione.
L’unica cosa certa sulla quale concordano con l’illustre critico, ancora una volta è una “verità povera” che il rimpianto Chini racchiudeva in questa semplice espressione: “nulla interessa all’uomo più dell’uomo (o di se stesso)”.

La maschera ed il volto

Vi ricordate quella storiella (si fa per dire) che recita “la fotografia è l’avvento di me stesso come altro …. un’astuta dissociazione di coscienza di identità ….. davanti all’obiettivo quattro immaginari s’incontrano, si deformano, si affrontano … io sono contemporaneamente quello che io credo di essere, quello che vorrei che si creda che io sia, quello che il fotografo crede che io sia , quello di cui si serve per dimostrare la propria arte..”?
Se provassimo, per un attimo, a scordarla, senza mancare di rispetto, anzi, onorando la memoria del buon Barthes?
Non vogliamo apparire dei provocatori ma, soffermandoci sui libri che recentemente hanno inventariato la migliore produzione di ritratti sorprende alquanto, tra le tante proposte, l’inquietante presenza della “maschera”.
Scartata l’idea che si fotografi il volto mascherato perché non si ha il coraggio di guardare in faccia i nostri compagni d’umanità, cerchiamo di capire cosa c’è dietro la volontà di raccontare la maschera.
Preliminarmente spieghiamo che tra i ritratti alcuni riportano una maschera che va ricondotta all’interno della documentazione etnologica (il fotografo, in questo caso, ha assecondato soltanto l’intento dell’uomo mascherato a diventare ciò che vuole rappresentare e ha soffermato il proprio strumento fotografico sul travestimento indagato o sul camuffamento rivelato) .
Un altro tipo di mascheramento inquieta, invece, l’obiettivo dei fotografi ed è “l’incontro-scontro” con quella naturale predisposizione d’ogni creatura a nascondere una parte di sé, a celare la propria identità, a distogliere l’attenzione del fotografo confondendone la capacità percettiva che, alla fine, finisce per rivolgersi ad altro mentre lo strumento freddamente raccoglie e registra tutto.
In alcuni casi, addirittura, la maschera o il manichino sostituiscono l’identità che si poteva fotografare. Senza scomodare De Chirico, queste maschere e manichini non si offrono ai nostri occhi come sagome inquietanti che si stagliano su metafisiche piazze. Sono semmai la manifestazione-dichiarazione d’una sconfitta o d’una fuga. E’ come se la fotografia non potesse andare oltre il volto. Oppure, come se la fotografia dovesse andare oltre, cancellando però i caratteri del nostro viso e cercando il ritratto della nostra umanità in nuove direzioni, forse in altre realtà.
A volte proprio il soggetto ritratto è offerto dal fotografo come testimonianza d’una volontà ingannatrice, d’un desiderio di apparire diversi da come siamo.
Cosa manifesta, allora, il privilegio accordato a questo tipo di visione? Sfiducia nel nostro corpo? Tentativo di bloccare il tempo ed apparire secondo canoni che non abbiamo inventato ma nei quali siamo entrati per convenzione e per moda?
Ma non sono stati proprio i fotografi a favorire tutto ciò esaltando clichè e luoghi comuni per il volto del bambino come per il vecchietto di turno?
Proviamo, allora, a capire questa attenzione alla maschera guardando ai ritratti fotografici di qualche fotografo di cui ci fidiamo. E scegliamo l’amato Giacomelli.
C’è una maschera nel ritratto della madre? E ce ne sono nella sequenza fotografica sul pittore Bastari?
Ecco che basta questo semplice confronto per ridefinire meglio il concetto di “maschera”, forse presente in ogni ritratto fotografico, e comprenderne anche una possibile teoretica.
Nella “Madre” il Fotografo ha lavorato spinto da una necessità drammatica, poetica e, quindi, esistenzialmente effettiva ovvero la necessità di penetrare dentro la storia della madre che è la sua storia e di ritornare dentro la terra materna che è la stessa che l’ha visto nascere. Chi fa il ritratto alla propria madre è ormai l’uomo che si pone delle domande, che si è creato la sua maschera, e non è più il bambino. Alla madre lui confeziona altra maschera, secondo le regole che ha imparato, soffermandosi sui segni della storia ma, soprattutto, consapevole che poi la rappresentazione farà il resto, regalandogli il tempo e lo spazio per costruire quel teatro dove rivivere il drammatico riconoscimento della sua percezione.
Anche per la sequenza Bastari possiamo fare le medesime considerazioni. In questo caso, però, il rapporto è diverso poiché il teatro della memoria e dell’agnizione che si va realizzando seguendo i passi del pittore conduce non solo a raffigurarne “una” possibile identità ma anche al confronto opportuno per capire, attraverso l’altrui maschera-umanità, il significato tutto particolare di essere artisti ed il dovere di esprimere questa identità.
La maschera, quindi, diventa connotazione, affermazione del nostro sentire, del nostro domandare.
Anche la coraggiosa presenza di alcuni pregevoli autoritratti parla in tal senso. Proprio negli autoritratti la composizione abbandona il desiderio di descrizione fisica e psicologica così come realizzata in letteratura da Foscolo, Alfieri, Manzoni. Tutto sembra piuttosto alludere, e confermare quel “Ignoto a me stesso” di Paul Valery che Sciascia e Palazzoli vollero quale titolo per una celebre rassegna di ritratti fotografici di famosi scrittori.
Scrittori? Inavvertitamente ci siamo incontrati con l’esperienza-maschera che volevamo definire: i nostri fotografi soffermandosi sulla maschera di sicuro non hanno inteso rivelare il “personaggio” poiché nessun personaggio stava davanti al loro obiettivo; né, però, volevano fare mera documentazione. Il loro ritratto fotografico ha invece seguito le regole precise della scrittura, quella composta in forme precise e canoniche e quella realizzata come un appunto per non dimenticare un’idea, un’emozione.
Abbandoniamo, quindi, la riflessione che ci ferma al momento della ricerca, dell’incontro e della ripresa e spostiamola al momento della realizzazione, della stampa, della visione della fotografia, quella cioé diventata carta, da portare con noi, in tasca o in cornice.
Questa impostazione ci parla meglio del teatro dei nostri fotografi e delle maschere che hanno voluto offrirci come ritratti. Da questa angolazione afferriamo il senso del dialogo che hanno voluto aprire inviando ritratti come opere aperte che tocca a noi concludere.
Direbbe Vaccari che la fotografia (anche quella di questi ritratti), con i suoi automatismi, in quanto strumento di un inconscio tecnologico, ha recuperato l’innocenza e l’immediatezza, la totalità di un pensiero fatto cosa, attraverso una cosa che si fa pensiero.
Nei ritratti, la maschera innocente si fa pensiero per indurci a scoprire che proprio la fotografia, il pezzo di carta stampata che abbiamo in mano, è maschera, proprio come quella dell’attore, quella dell’antico sciamano, quella dell’indigeno.
Chi l’ha fatta e chi la vede ne fa l’uso più opportuno.

Come in uno specchio

Se ci avete seguito fin qui vi sarete accorti che non abbiamo voluto espressamente ripercorrere alcuna storia del ritratto fotografico anche perché siamo assolutamente consapevoli che “tutta la fotografia” oggi convive con altri medium con i quali scambia identità e specificità, perdendo, però, quell’autonomia che faticosamente aveva conquistato e che sembrava averla resa autosufficiente.
Fondamentalmente ci premeva e ci preme capire cos’è “oggi” un ritratto fotografico. In particolare, cos’è nella ricerca del fotografo, cos’è per chi attende il suo risultato.
Potremmo ritornare sul tema della perdita, dell’elaborazione del lutto e troveremmo valide ragioni per continuare a ritrarre il volto dell’uomo. Oppure rielaborare il concetto dell’assenza e quindi pensare al ritratto come memoria. Oppure limitarci ad una funzione ricognitiva, da indagine sociale, per capire, dell’uomo e della donna, il destino o la libertà, sorprendendone la storia oltre il casco dell’astronauta oltre la maschera terrorizzata di Beslan.
Insomma, la fotografia può vivere la sua crisi, perdere la sua conquistata specificità, confondersi qualitativamente con qualunque altra invenzione visiva ma nello specifico del ritratto ha ancora qualcosa da dire. Vive, infatti, la sua contemporaneità chi impugna lo strumento con la volontà di vedere oltre gli occhi, a cominciare dai propri.
Il ritratto va, forse, come dice l'amico l prof. Enzo Carli, verso “la terra dei nessuno”
Si, è vero che l’attendibilità della fotografia ci appare sempre più discutibile. Ma non è discutibile il nostro sentire, il nostro scegliere cosa fotografare, cosa permettere alla luce di illuminare.
In fin dei conti alla figlia del vasaio Butade, della quale Plinio il Vecchio ci narra nelle sue Storie, non chiederemo mai come ha ritratto l’amante che andava via da lei ma semplicemente “perché” ha voluto conservarne l’immagine.
Dice l’amico Chiaramonte che la natura dell’uomo è quella di essere immagine dell’infinito vivente e che fare un immagine speculare del mondo significa rivelare la natura del mondo che è immagine.
Solo questa consapevolezza, per nostra esperienza, ci dice che possiamo fotografare l’uomo non più come in uno specchio. Ma, anche noi, come il prof. Carli, a volte aggiungiamo un “forse”.
 
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Ultima Modifica: 2012/05/23 19:01 Da PipPap.
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Caristofane (Utente)
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Vi seguo, mi riservo di leggere con calma il trattato dello splendido Pippo e mi complimento con Alberto per essere riuscito a stimolarlo tanto a fondo.

Vado di fretta, ma vi vorrei lasciare un piccolo pensiero, a me caro per i miei trascorsi in quel di Roma.

La maschera – Trilussa

Vent’anni fa m’ammascherai pur’io!
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p’annisconne quello mio.
Sta da vent’anni sopra un credenzone
quela Maschera buffa, ch’è restata
sempre co’ la medesima espressione,
sempre co’ la medesima risata.
Una vorta je chiesi: – E come fai
a conservà lo stesso bon umore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core! -
La Maschera rispose: – E tu che piagni
che ce guadagni? Gennte! Ce guadagni
che la genti dirà: Povero diavolo,
te compatisco… me dispiace assai…
Ma, in fonno, credi, nun j’importa un cavolo!
Fa’ invece come me, ch’ho sempre riso:
e se te pija la malinconia
coprete er viso co’ la faccia mia
così la gente nun se scoccerà… -
D’allora in poi nascónno li dolori
de dietro a un’allegia de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l’umanità!

Indossiamo un po' tutti una maschera?

Emanuele.
 
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Ultima Modifica: 2012/05/23 09:35 Da Caristofane.
 
E\' un\'illusione che le foto si facciano con la macchina... si fanno con gli occhi, con la testa e con il cuore.
Henri Cartier-Bresson

Chi non sa fare una foto interessante con un apparecchio da poco prezzo, ben difficilmente otterrà qualcosa di meglio con la fotocamera dei suoi sogni.
Andreas Feininger
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#6969
Caristofane (Utente)
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Solito doppio

ma perché? Boh!
 
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Ultima Modifica: 2012/05/23 09:38 Da Caristofane.
 
E\' un\'illusione che le foto si facciano con la macchina... si fanno con gli occhi, con la testa e con il cuore.
Henri Cartier-Bresson

Chi non sa fare una foto interessante con un apparecchio da poco prezzo, ben difficilmente otterrà qualcosa di meglio con la fotocamera dei suoi sogni.
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#6970
PipPap (Utente)
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Re:"il Ritratto di una Maschera" 11 Anni, 11 Mesi fa Karma: 9  
Ho "fotografato" una possibile risposta (per me, quasi, affascinante, perchè ricca di altre implicazioni))

"PERCHE' SIAMO NUDI".
Come nel giardino dell'Eden, avendo, ormai, preso coscienza; o, come nelle "maschere nude" di Luigi Pirandello, perché abbiamo bisogno di vestirci ("vestire gli ignudi" per poterci rappresentare.

Ringrazio per l'umorismo di Salustri (si mascherava anche nel cognome) che rimane comunque la misura di cui abbiamo necessità.
 
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Ultima Modifica: 2012/05/25 11:07 Da PipPap.
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