Suryene Ramaget
Invero, la fotografia, intesa come strumento tecnico per esprimere la nostra visione del mondo e la nostra capacità di comprenderlo, marcia in più direzioni; direzioni apparentemente tra loro lontane (documentazione, testimonianza, espressività artistica, narrazione, etc..) eppure straordinariamente contigue, vicine, connesse.
Ecco, l’’espressione che più frequentemente ritornava sulle labbra del nostro ospite, era “connessione”; quindi, fotografia come modalità di ricerca, come tentativo di stabilire un contatto, di trovare un piano d’incontro, di progettare un percorso comunicativo.
La ricerca della connessione (che tanti problemi tecnici ci fa subire in questi nostri incontri affidati all’elettronica) si è come materializzata ed è divenuta una sequenza d’immagini laddove il fotografo, lui per primo, si è reso conto di un fondamentale atteggiamento metodologico: eliminare le distanze, di tutti i tipi e di tutti generi. Eliminare anche quelle distanze che nascono dalla presenza di quello strumento che tutto vede, tutto pretende di capire.
E allora perché non accompagnarlo con un sorriso, con un naso rosso da clown e con il desiderio di condividere una confidenza che ci faccia andare un po’ più avanti dal “disagio” dell’esistenza? Perché non nascondere l’altro naso ormai buono soltanto a captare sgradevoli sensazioni?
Il nostro amico ci sussurra che, così facendo, parecchie cose cambiano: cambia l’incontro, il confronto, il dialogo, la comunicazione, la comunione. E tante cose riprendono significato e tante altre lo perdono. Ti accorgi che tutto questo accade solo perché un giorno ti sei deciso a guardare non con un moto di curiosità, e non certo come sfida, e mai come si guarda allo zoo, ma solo con la consapevolezza di chi sa che tutto questo “disagio” ti riguarda, ti appartiene, ha la stessa radice dei tuoi sogni e dei tuoi incubi.
Che poi molte immagini possano essere giudicate belle, questo ormai appartiene a chi sa che quell’esperienza ha bisogno di essere condivisa e “riflessa”
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