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Discussione: Any photograph did not take place
#9066
simone.sapienza (Utente)
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Sesso: Maschio La mia passione: la fotografia Ubicazione: Siracusa Compleanno: 1990-09-22
Any photograph did not take place 9 Anni, 6 Mesi fa Karma: 0  
Chiedo scusa per refusi inglesi e citazioni in lingua originale, traduzione fatta velocemente. Spero possa interessarvi e che apra (partendo soprattutto da Guy Martin) magari ad un dibattito sul "nuovo" genere di fotografia documentaria che negli ultimi anni sta avendo un grande successo mondiale, a cavallo tra fotogiornalismo, posato e fiction.

Any photograph did not take place
Connections between hyperreal world and war photography

di Simone Sapienza



Il Golfo tra censura e tecnologizzazione
Alla luce dell'invasione irachena in Kuwait per mano del dittatore Saddam Hussein, la Guerra del Golfo ebbe inizio nell'Agosto 1990. Ciò comportò la coalizione di 35 stati, capeggiati dagli Stati Uniti, il cui intento era il ripristino della sovranità del Kuwait. Le operazioni militari ebbero inizio nel Gennaio 1991 e terminarono in appena 40 giorni circa, ufficialmente il 28 Febbraio 1991.
Nonostante la breve durata del conflitto, la Guerra del Golfo fu uno degli eventi storici più simbolici di fine secolo. Le parole chiave che meglio rappresentano tale guerra potrebbero essere “censura” e “tecnologizzazione”, che insieme hanno reso determinante il ruolo dei mass-media in tale evento.

Precedentemente, l'esperienza del Vietnam fu disastrosa per gli USA non solo dal punto di vista storico, ma soprattutto mediatico. La libertà di cui godevano i fotografi in Vietnam ha permesso loro di documentare senza veli il fallimento americano, influenzando moltissimo l'opinione pubblica sulla decisione di tale conflitto. La crudeltà di certe immagini ha determinato una limitazione d'accesso ai fotografi nei conflitti successivi: nel 1982, il governo britannico di Margaret Tatcher impose una forte censura durante la campagna nelle Falklands cosicchè "non c'era stato un divieto così restrittivo dalla Guerra di Crimea" (Sontag, 2003, p. 64). Persino a Don McCullin fu impedito di fotografare tale evento.
Nel Golfo Persico, per evitare un altro Vietnam, gli USA cercarono di tener quanto più lontano i fotografi dalla scena di guerra, tant'è che le immagini più eloquenti di tale conflitto furono, secondo Fred Ritchin, quelle che “show the roof of a building in the cross-hairs of a camera linked to a bomb about to strike it”. (Ritchin, 2013, p. 16)
Tuttavia, la consapevolezza della censura fa sì che non si riesca ad esser sicuri se la mancanza di certe immagini in Iraq fosse dovuta alla reale diversità del conflitto oppure alle restrizioni imposte ai fotografi.

“Tecnologizzazione” potrebbe essere la seconda parola-chiave con cui identificare la Guerra del Golfo: “The sky above the dying, filled with light-traces of missiles and shells” (Sontag, 2003, p. 66). Ciò è come Susan Sontag descrive una tipica scena della Gulf War, vista attraverso le stesse immagini che le televisioni trasmettevano in tutto il mondo in diretta. Nei fatti, questo fu il primo conflitto nella storia con una copertura televisiva live per ventiquattro ore, tutti i giorni. (Baudrillard, 1995, p. 3) Milioni di telespettatori “hostages of media intoxication, induced to believe in the war” (Baudrillard, 1995, p. 25) attraverso una moltitudine di notizie, quasi a simboleggiare una volontà di informare quanto più le persone. Ciò sembrerebbe in opposta opposizione alla scelta di censurare i fotografi; invece, tali scelte non si contraddicono, poiché in realtà, seppur “informando” minuto per minuto, le notizie che veicolavano erano del tutto telecomandate, scelte ad hoc, un mix asettico di notizie e immagini. In questo modo, la massima quantità possibile di messaggi aveva il solo compito di non-informare, allo stesso modo di quanto non-informavano le non-fotografie scattate. L'assenza di fotografie rimanda al concetto osservato da Ernst Junger, secondo cui senza la fotografia non possono esistere guerre. (Junger in Sontag, 2003, p. 66)
Jean Baudrillard, filosofo francese, a tal proposito, scrisse “The Gulf War Did Not Happen”, una raccolta di tre essays scritti prima, durante e dopo il conflitto.

La Guerra del Golfo non è mai avvenuta
Il pensiero di Baudrillard ruota intorno al fatto che è cambiato il concetto di guerra per diversi motivi. Il tacito assenzio delle Nazioni Unite ha dato via libera ad una guerra, secondo Baudrillard, vinta a priori dagli USA, senza alcun rischio così come “with an abundance of precautions and concessions. It is the bellicose event of safe sex: make war like sex with a condom!” (Baudrillard, 2003, p. 26)
Agli attacchi aerei americani, l'Iraq rispondeva con la tattica degli ostaggi: non c'è stato nessuno scontro reale tra due eserciti a differenza delle passate guerre.

Il cambiamento concettuale della parola “guerra” si associa anche alla tecnologizzazione del conflitto, lasciando sempre più spazio ad una guerra combattuta a distanza, come un gioco di società. Baudrillard afferma quindi che i confini tra realtà e virtualità cominciano a dissolversi l'uno dentro l'altro (Baudrillard, 1995, p. 27), ma, al termine della sua tesi, sostiene come sia la realtà virtuale ad averla avuta vinta. Tale considerazione nasce soprattutto poiché la tecnologizzazione, parallelamente alla censura, ha avuto il suo exploit nella diffusione della guerra tramite i mass-media. I fatti sono stati rimpiazzati dalla comunicazione digitale, che veicola e rovescia la realtà, sino a farne perdere l'identità. Il controllo unilaterale dei mass-media ha sponsorizzato simulazioni degli eventi reali, in modo che ciò che venisse fuori fosse una guerra pulita, sottoposta ad un lifting mediatico.
Questo ha comportato, secondo il filosofo francese, alla guerra vista come simulacro, una copia contraffatta di un qualcosa di cui non è mai esistito l'originale. Secondo Baudrillard non c'è più distinzione tra realtà e segno. Quest'ultimo ha la capacità di funzionare indipendentemente ed è a quel punto la realtà, scomparsa nel media-dominated world, ad uniformarsi ai segni per essere creduta. Baudrillard afferma inoltre che a tal punto che le restrizioni ai fotografi non furono più il vero problema, dal momento che sarebbero stati incapaci di rappresentare l'indeterminatezza di tale conflitto (Baudrillard, 1995, p. 30)

La tesi di Baudrillard potrebbe indebolire la reale sofferenza umana e mancare di rispetto alle tante vittime della guerra. In tal senso, Susan Sontag reclamò invece che “there is still a reality independent of attempts to weaken its authority” (Sontag, 2003, p. 109), forse criticizzando la toeria di Baudrillard che implicitamente potrebbe associare gli orrori della guerra alla media-generated simulation. Tuttavia, il filosofo francese non nega i fatti successi alle persone e la sua realtà simulata non deve essere presa letteralmente, ma vista in prospettiva di una guerra virtuale, generata dalla politica orchestrazione dei mass-media per creare una coesione sociale interna dell'opinione pubblica a favore di secondo fini.
Il mondo virtuale di Baudrillard è un mondo parallelo, un simulacro divenuto iperrealtà che suggerisce per contrasto che esiste un mondo vero, ma si è ormai sprofondati nell'iperrealismo.
L'esempio più eclatante è quello delle varie città Disneyland sparse nel mondo che rappresentano piccoli mondi perfetti e totalitari, a sé stanti. Se il simulacro suggerisce la differenza tra Disneyland ed il resto del Paese, l'iperrealismo mette alla luce come anche tutto il resto del Paese sia finto, disneyano, uniformato ad esso, come la realtà che si uniforma ai segni.

Piazza Taksim, la soap-opera di Istanbul
La Guerra del Golfo è vista anch'essa come Disneyland, un teatrino messo perfettamente in scena. Sullo stesso filone, più di dieci anni dopo, il progetto fotografico “City of Dream” riprende concettualmente il conflitto come rappresentazione. It was made by photographer Guy Martin in Istanbul in 2013, durante gli scontri tra la polizia ed i manifestanti turchi.
Precedentemente Guy Martin aveva documentato altri conflitti, tra cui quello in Libia dove fu gravemente ferito in seguito ad un "rocket-propelled grenade attack" a Mysurata. Tale incidente cambiò il suo approccio verso la fotografia di guerra, cosicchè decise di rappresentare gli scontri di Istanbul nel modo più simbolico ed eloquente possibile.
“City of Dream” è un'associazione tra gli scontri di Piazza Taksim e le soap-opera sceneggiate in Istanbul che stavano e stanno spopolando in tutto il mondo arabo. In un periodo storico in cui la Turchia primeggia in Asia, sia socialmente che economicamente, Guy Martin ha interpretato gli scontri di Istanbul come parte integrante di un'unica grande soap-opera il cui intento è quello di ridare alla Turchia il fasto dell'Impero Ottomano. (Martin, 2014)
In tal senso c'è una forte connessione tra questa visione degli scontri e la tesi di Baudrillard sulla non-guerra sceneggiata nel Golfo.
Lungo la serie Guy Martin mischia immagini reali e staged con fotografie fatte nei set delle soap-opera. Il risultato è un lavoro ambiguo che riesce nell'intento del fotografo di produrre una serie più vicina alla fotografia di scena piuttosto che alla documentazione degli scontri, mostrando sia immagini della soap-opera “Taksim” che del relativo backstage. Una rappresentazione personale che rimanda al mondo iperreale di Baudrillard e all'ironia con cui il filosofo francese “nega” la guerra nel Golfo.



L'utilizzo delle didascalie ha un ruolo chiave nel progetto, determinando una continua incertezza tra immagini reali, staged e di scena. La fotografia di una ragazza caduta per terra, sanguinante, rimanda a primo impatto ad una qualsiasi scena degli scontri di Istanbul. La didascalia – “Murder of the mistress. Istanbul, 2003” – rimette in dubbio interamente l'origine della fotografia, soprattutto se vista nell'insieme totale.
Non si riesce più a determinare se sia veramente una ragazza ferita durante gli scontri in Piazza Taksim o una fotografia staged ad hoc o persino una scena di una reale soap-opera nella quella rappresenta davvero ciò che è descritto nella didascalia.



Quasi l'opposto succede nell'immagine in cui “Police prepare for an interrogation”: nonostante la fotografia sia tratta quasi sicuramente da una scena di una soap-opera – secondo quanto fa intuire la vecchia automobile, sicuramente non attuale in una città comunque moderna come Istanbul – in tal caso la didascalia potrebbe collegarsi senza problemi agli scontri di Istanbul, soprattutto dopo le denunce di abusi delle forze armate contro i manifestanti.



Nell'ultima immagine, infine, sono rappresentate diverse persone che con una moltitudine di espressioni e stati d'animo “watch and film police confront a crowd” in Gezi Park, Istanbul. La presenza delle mascherine conferma la veridicità della didascalia, la quale però ormai perde di identità in questo misto di immagini reali e no, didascalie inventate e no, coinvolgendo ormai il viewer in una serie fotografica in cui non importa più cosa sia vero e cosa no.
Nonostante l'evidente fatto che il fotografo mostra delle scene anche allestite e nonostante la consapevolezza degli osservatori, as said by Baudrillard, “they swallow the deception and remain fascinated by the evidence of the montage”. (Baudrillard, 1995, p. 68)


Tirana sotto assedio
Il risultato ottenuto da Guy Martin è ancora più simbolico nel progetto “DL07 – Sterotypes of War” by Jens Liebchen. Se “City of Dreams” deve ricorrere anche alle fotografie staged e di backstage per reinterpretare la realtà, Jens Liebchen riesce a far lo stesso sfruttando solo gli stereotipi visivi della fotografia di guerra dell'ultimo secolo.
Il suo progetto, infatti, trasmette la sensazione di una documentazione fotografica di una città – Tirana – sotto assedio. Invece, Jens Liebchen utilizza delle immagini street realizzate senza che alcun conflitto fosse in atto, cercando di associare scene quotidiane ai clichè di fotografia di guerra in order to suscitare tale sensazione al viewer, a testimonianza che “it is not more authentic than the War Film or the Western” (Jeffrey in Liebchen, 2000, p. 1).



La prima immagine del libro, costituito da appena 19 fotografie, mostra un soldato che imbraca una fucile in un luogo asettico ed indefinito. Una semplice scena di un militare che potrebbe essere di guardia ad una residenza militare o governativa, viene trasformata in un'immagine piena di pathos con una funzionale composizione e punto di ripresa. E' fondamentale la posizione del fotografo: essa non permette di vedere cosa ci sia al di là delle scale, cosi come la posizione dall'alto verso il basso del militare accresce questa senso di imponenza sull'osservatore. Le diagonali puntano tutte sul soggetto e l'inclinazione dell'immagine accresce la tensione della fotografia.



La penultima fotografia del libro è l'unica in interni. Sullo sfondo il simbolo della bandiera albanese e la scritta 1944-1999 rimandano all'idea di un congresso celebrativo di un anniversario, probabilmente quello della nascita dell'Albania. Ciò che però caratterizza e potenzia tale fotografia è l'immagina stretta dei due occhi sullo sfondo. Tale espressione, infatti, alimenta la tensione perpetrato lungo il libro, rievocando l'onnipresenza di un “Grande Fratello” di orwelliana memoria che guarda e monitora la nazione. La silhouette in primo piano accresce tale tensione grazie alla sua figura totalmente nera e senza dettagli, completando tale senso di imponenza su un popolo, apparentemente sottomesso, che nella verità dei fatti dell'epoca era libero.
Il progetto di Jens Liebchen è una chiara testimonianza di come certe scene siano insite nella mente al punto da ricreare una situazione iperreale senza che, effettivamente, il fotografo stia mentendo.
Egli riprende per certi versi la teoria di Baudrillard secondo cui tutto è una simulazione, cosicchè “Liebchen's postmodern reportage tells us to trust nothing, neither tale nor teller, and certainly not the postmodern deconstruction of both.” (Parr and Badger, XX, p. XX)
Senza alcuna foto staged e senza l'utilizzo di didascalie, tale serie dimostra come la selezione ad hoc di immagini può far sì che i mass-media abbiano il potenziale di creare informazione.

The show must go on
Ad oggi sarebbe possibile risollevarsi da questo inghiottimento della società nel mondo virtuale e stereotipato dei mass-media? Persino Susan Sontag è scettica su ciò, nonostante critichi la drastica tesi di Baudrillard. E' vero che ella accenna a “certain photographs that can be used like memento mori, as objects of contemplation to deepen one's sense of reality” (Sontag, 2003, p. 119). Ma è altrettanto vero che, nel momento in cui tali icone secolari necessitino uno spazio meditativo in cui guardarle, è poco fiduciosa in una società moderna il cui modello principale di spazio pubblico è il centro commerciale. (Sontag, 2003, p. 119)
Di fronte ad una società che non sembra aver più tempo e spazio nemmeno per la riflessione delle immagini più forti, è difficile aspettarsi che avvenga una rivoluzione delle coscienze che riesca a mettere in crisi i mass-media ed il simulacro di Baudrillard, alimentato costantemente dalle coscienze passive dei viewers. Molti si sarebbero fermati al semplice primo impatto delle immagini di Liebchen, facendosi convinti di un conflitto a Tirana che non esiste.
E' quindi necessario un risveglio delle coscienze, alimentate da una verace voglia di conoscenza ed informazione, senza i filtri dei mass-media. Nel momento in cui un misto fatto di curiosità, dubbio e diffidenza comincerà a diffondersi negli spettatori, solo allora si potrà cominciare a metter giù le maschere di Disneyland. Tutto ciò ha bisogno, comunque, di una scintilla d'avvio: che sia arrivato il tempo di chiudere i centri commerciali? Ma anche li, troppi interessi alle spalle. The show must go on.
 
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Ultima Modifica: 2014/10/30 01:06 Da simone.sapienza.
 
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