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Il sapore della festa PDF Stampa E-mail

di Pippo Pappalardo

Non abbiamo ancora messo a riposo i segni del passato Natale, non abbiamo neanche smaltito l’appesantimento fisico del festeggiato anno nuovo, e già i nostri sensi sono nuovamente provocati, sollecitati e richiamati attraverso gli occhi, il naso e, soprattutto, attraverso, il palato.
Per i catanesi, è arrivata Sant’Agata.

Il nostro Presidente, sempre attento a offrirci nuove palestre dove praticare il nostro esercizio preferito, stavolta ha pensato di farci ritornare sulla festa di Sant’Agata e così, dalla documentazione degli aspetti gastronomici in essa vissuti, iniziare un racconto tematico della ricorrenza supportato da questo elemento.
C’è un senso nascosto nella provocazione: e nascosto tra i cinque sensi della tradizione fisiologica, c’è il senso del ricordo, della memoria.
A tutti è ormai noto l’episodio raccontato da Marcel Proust nel romanzo “Dalle parti di Swann”, il primo libro della monumentale “Alla ricerca del tempo perduto”: il protagonista inzuppa nella tisana che gli è stata offerta un biscottino, una “madeleine”, (il nostro pazientino) e, grazie al gesto, all’odore, al profumo, al sapore di quel semplice biscotto inzuppato gli si risvegliano dettagliatissimi ricordi, sottilissime percezioni, inconsce nostalgie, struggenti rimembranze, ammalianti richiami cui si abbandona ricostruendo il senso di ciò che ha perduto negli anni e di ciò che non si ripeterà “mai più”, nevermore, jamais.


E allora?
Il “progetto”, allora, forse, si può delineare: attraverso calia e simenza, attraverso olivette e torrone, minni di virgini e gelati di campagna, arancine e sfingioni, bianco mangiare e  pane di Napoli, ritorniamo al senso dell’attesa e del compimento della festa, di quando si completava e si chiudeva un pranzo nel nome di Sant’Agata, di quando le famiglie si affacciavano al balcone alzandosi da tavola per vedere la Santa, di quando i devoti si rifocillavano nei due giorni di processione attingendo alla ristorazione da strada che, a Catania, continua ad essere fantasiosa e spettacolare.
Voi direte: ”I dolci e la famiglia, va bene; ma come collegarli alla città?”
Pensate, allora, che tutto quello che ho citato si fa per “strada”; altro, ancora, è esposto nelle vetrine; è esibito dappertutto.
E se volete proprio contestualizzare: le olivette andranno a fare la rima all’olivastro davanti al Santo Carcere, il torrone al ritmo del bianco nero dei nostri palazzi e delle nostre strade, la mandorla con gli accenni di primavera; le “minne”, poi, con tutto ciò che riguarda Sant’Agata: e non saranno i sacchi devozionali a mortificare i corpi delle nostre concittadine e, per una volta tanto, penseremo che da quella fonte abbiamo bevuto un po’ tutti.
Dovremmo, quindi, fotografare in trasparenza, in duplicazione, per far vedere la fede e la festa, per far capire la storia e rivivere il rito. Dobbiamo tornare bambini e trovare tra noi  leggere parole nel frastuono della moschetteria e nel riverbero delle candele degli adulti.
E qui vi lascio: non prima di aver ricordato a voi e a me stesso due piccoli episodi legati alla gastronomia della festa ed ai suoi sensi più, come dire, pagani.
Il primo è legato all’abitudine di rafforzare le ugole dei devoti inneggianti con mangiate di acciughe salate accompagnate da bevute di seltz e limone; il secondo è un ricordo  più personale, in qualche modo più intimo e legato ai miei primi turbamenti.
Una cugina più grande, cui facevo visita durante il giro processionale, aveva l’abitudine, prima di congedarmi, di frugare sotto il sacco che indossavo e riempire le tasche dei miei pantaloni con tanta buona calia e nucidda americana. E ne stipava assai. Anno dopo i anno, io gradivo quel gesto di allegria e di abbondanza.
Poi, un anno, tutto finì: ai miei occhi imploranti  rispose che s’era accorta che ero diventato grande.
La lacrime, di allora, e di adesso, hanno un sapore, come dire, agatino?

 
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